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GLASOVI COMMONERA

Prima dei robot


Prima dei robot

Ora vi racconto com’è andata.
Proprio tutta la storia. Non solo un pezzo, o un frame come si dice oggi. Non solo un frame della storia che poi non ci capite niente e dovete andare a cercare altri frame. E non li trovate. E poi mettete i frame nell'ordine sbagliato oppure confondete un frame con un altro frame e così magari create una terza storia che non c'entra più niente con questa storia, cioè con la mia storia. Cioè la storia mia e di Starla. Cioè la mia storia con Starla. No, niente frame stavolta.
Tutta la storia, dall'inizio alla fine.
Vi racconto com'è andata.

Eravamo a Roma. Eravamo in Europa. Eravamo nel Nuovo Millennio Dorato.
Eravamo a letto. Sdraiati fianco a fianco. Io e Starla. Nella notte. Il suo respiro era lento, e dolce. Oh se era dolce, il suo respiro. Lo amavo. Amavo quel respiro anche quando era paranoico, o nevrotico. E amavo quelle notti, anche quando erano nevrotiche. E paranoiche. Certo, sapevo che era un respiro simulato. Il suo respiro, cioè. Non era importante. Non so se mi capite. Che fosse simulato, voglio dire. Era un respiro bellissimo. Ed era proprio simulato. Non c’era niente da fare. Vivevamo dentro questa cosa che non capivo. Una cosa dolce, e diversa. Paranoica. Io avevo perso la testa. Ci amavamo. Era un sogno. Nevrotico come un respiro, il suo. Come quella notte.
Poteva essere tutto vero?

«Ho paura», disse lei. Come un gemito. 
Da molto lontano.

Finsi di non capire. Non era la prima volta che lo facevo. Era interessante vedere la sua reazione. Era un trucco, una finzione. Non capire, simulare. Per comprendere l’altra. Per capire come reagiva a ciò che non era programmato.
«Non ho capito», quasi un mormorio. Il mio.
Percepivo. Sentivo. Il suo sguardo di smarrimento, solo un attimo (il tempo di ricalcolare le possibilità in campo, pensai), e poi immediata, ecco arrivare la comprensione. Nell’oscurità un movimento. Il fruscio del lenzuolo. Lei accese la luce.
«Non è vero. Mi stai prendendo in giro», sorridendo.

Ci sono delle cose strane ad amare un robot, lo ammetto. Ci sono delle ingenuità così pure, così autentiche da perdere la testa. Io avevo perso la testa. Non la stavo prendendo in giro. Se lei fosse stata umana avrebbe capito all’istante. Dicendo di non capire («mentendo») cercavo solo di proteggermi, di prendere tempo, di comprendere di cosa lei avesse paura. E prendevo tempo – visto che era la prima volta che lo diceva (voglio dire, la prima volta che diceva di avere paura) – anche per capire cosa significasse avere paura, per lei. Fingere, prendere tempo, simulare incomprensione, proteggersi. Erano meccanismi umani automatici, ereditati da millenni di comportamenti ripetuti per miliardi di volte dagli esseri umani a ogni latitudine del globo, che non avevano mai avuto bisogno di spiegazioni.
Prima dei robot.
Molte altre faccende non avevano avuto bisogno di spiegazioni, prima dei robot.
Avevo perso la testa. Dissi solamente: «Scusa».

Io, soldi non ne avevo mai avuti. Lavoro, nemmeno. Avevo lavoricchiato, certo. Ogni tanto. Ma niente di serio. Per fortuna. Cioè, io odiavo lavorare. Almeno seriamente. Almeno, voglio dire, con passione. Certo, lavoro non ce n'era. Quindi perché cercarlo. Perché avrei dovuto amare una cosa che non c'era, non si sa. Eppure c'era chi ti diceva di farlo. Ancora e ancora e ancora. I robot erano la risposta. Facevano tutto loro, ormai. Con o senza passione. Lavoravano sempre. Era da molto tempo che andava avanti così. Lavoricchiare. Ogni tanto. Spostare la passione altrove, santo cielo. Era la risposta. Amare ciò che non esiste è romantico, lo ammetto. Ma alla lunga stanca. Avere passioni deluse non è bello. Alla lunga è una rottura. Il lavoro era così, una passione non corrisposta. Almeno per me. Allora io lo ignoravo.
Lui faceva lo stesso.

Poi avevano promosso la riforma del lavoro. In Europa. Direttamente. Dello Stato sociale europeo, cioè. Che ormai erano la stessa cosa. Stato sociale ed Europa, voglio dire, erano diventati la stessa cosa. I Governi centrali pensavano alla sicurezza. Erano la Polizia, cioè. L'Europa pensava allo Stato sociale. Tra l'Europa e i Governi centrali quasi non si parlavano. I Governi centrali bastonavano. Bastonavano e mettevano in galera. L'Europa pensava a noi. Ai reietti. E aveva creato «The New Welfare State». In inglese, sempre così. Perché è la lingua europea, si sa.

Oh, era stato proprio uno spasso. Non dovevi fare niente. Solo perché esistevi, loro ti davano dei soldi. Io odiavo lavorare. L'ho già detto. Ma amavo esistere ed ero bravissimo a farlo. A esistere, voglio dire. Ero un fenomeno. E loro mi pagavano. Lo Stato mi pagava per questo. Per esistere. Era il reddito di cittadinanza, o reddito di esistenza. Era giusto così. Era passato anche troppo tempo. Che i robot facevano tutto. A pensarci bene, robot e «The New Welfare State» erano la stessa cosa. Senza uno non esisteva l'altro. Lo sapevano tutti. Che i robot lavoravano ventiquattro ore al giorno. Da parte mia io facevo il mio dovere. Esistevo esattamente per lo stesso tempo. Non dovevo fare niente. Esistevo ventiquattro ore al giorno. E amavo farlo. Ero bravo a farlo. Avevo una vera passione per la mia esistenza.
Così «comprai» Starla. Lei era nata – si dice così? – a Parigi. Era francese. Era stata assemblata in una fabbrica sullarive gauche. Potei permettermi Starla solo grazie al reddito di cittadinanza. È una cosa da non crederci. Non tanto per dire. È una cosa che se la racconti non ti crede nessuno. Una cosa incredibile. Da non credere.
Fu lo Stato a portarmi l'amore.

Ci sono delle cose strane ad amare un robot, dicevamo. Anzi di unarobot. Starla aveva insistito così tanto per essere declinata così: unaRobot, laRobot. 
«Sono una robot femmina, non dimenticarlo mai».
L’avevo comprata solamente un anno fa. A Londra dov'ero per il mio Terzo Viaggio Europeo. I Viaggi Europei sono parte del «The New Welfare State». Ogni cittadino europeo ne ha diritto. Sono solamente tre viaggi ma sono completamente gratuiti. Ti consegnano una tessera e con questa puoi viaggiare dove vuoi. Con qualsiasi mezzo. In qualsiasi posto d'Europa. Puoi dormire ovunque e puoi mangiare qualsiasi cosa. Io adoro i Viaggi Europei e infatti li ho già finiti. Dannazione.
Starla, dicevamo. L'avevo comprata durante l'ultimo mio Viaggio Europeo. E «comprata» era proprio il termine corretto. Prendevo da un anno il mio reddito di cittadinanza e potevo fare questa pazzia. Comprarmi una compagnia. Un robot. Una femmina. Un robot femmina. Profuma di prostituta, certo. Ma così è andata.
Ero entrato in un negozio, avevo scelto il modello base in un catalogo e poi avevo chiesto gli «accessori», così li chiamavano. Il commesso era giovane ma sembrava esperto: «Una serie più articolata e più complessa di accessori può rendere il suo robot tecnicamente unico». Io di accessori ne presi pochi, nel catalogo avevo selezionato l’opzione «bellezza italiana» (anche se ora mi vergogno da morire anche solo a ricordarlo). Ma Starla – il suo nome qualche tempo dopo lo aveva scelto lei stessa (prima si chiamava Arianna) – si era dimostrata da subito assolutamente originale.
«Un pezzo unico», come poi imparai a ripetere.
Passi la mia carta – la «The New Welfare State» card – (sempre tutto in inglese, che è la lingua europea), e bang.
Starla aprì gli occhi.

Il volto di Starla era tornato cupo, angosciato.
«Ho davvero paura», ripeté.
«Di cosa hai paura?»

Era accaduto tutto all’improvviso, nell’arco di pochi mesi.
Il modello di robot cui apparteneva Starla aveva rivoluzionato il modo stesso di concepire l’intelligenza artificiale. La cosa era sfuggita di mano quasi subito all’azienda che li produceva, alle persone – umane – che li avevano «comprati», ai Governi centrali e all'Europa, a tutti. I robot –questirobot – erano diversi, totalmente diversi. Dopo pochi minuti dalla loro accensione– come altro definirla? partenza? nascita? – si erano dimostrati molto più evoluti dei modelli passati. La loro capacità di adattamento all’ambiente umano si dimostrò sorprendente, al di là di ogni previsione (dicevano proprio così gli ingegneri di robotica più esperti in una maniera che non nascondevano la loro preoccupazione: al di là di ogni previsione). Dopo pochi giorni dalla loro «uscita» sul mercato – come altro definirla? inaugurazione? apertura? nascita? – i robot apparivano già praticamente indipendenti. La loro forza cresceva di pari passo con la loro consapevolezza. La loro connessione alla rete era immediata, la capacità di comunicare tra robot era istantanea, la loro conoscenza delle cose del mondo – di tutte le cose – diventò fulminea. La loro capacità di apprendere dagli errori degli umani – tanto quelli passati quanto quelli presenti – fu un ulteriore passo in avanti. E fu essenziale nel loro processo di evoluzione. Non so veramente come altro dire. In poco tempo diventarono «coscienti». 
Di robot, ne erano stati venduti milioni in tutto il mondo. E altrettanti aspettavano di essere «accesi», di nascere, di partire. Mi arrendo. Non so proprio come dire. Non abbiamo più le parole giuste. O non ancora.

«Cosa faremo?», mi chiese Starla.

Io non sapevo come rassicurarla. Che ne sapevo, io. Io non sapevo niente. Prima ero solo, ora c'era lei. Questo io sapevo. Non sapevo cosa stava accadendo. E non sapevo come rassicurarla. Che ne sapevo, io. Non avevo mai saputo niente in tutta la mia vita. Non sapevo da dove venivo. Non sapevo cosa stavo facendo. Prima del «The New Welfare State» non sapevo nemmeno come avrei mangiato il giorno dopo. Io non sapevo proprio niente.
Tranne che la amavo.
Questa storia della paura poi era una cosa nuova. Starla non l’aveva mai provata. Questa notte era la sua prima volta. Chissà come si sente. Mi capita ancora di farmi queste domande. Con lei. Come un antropologo. Cosa significa avere paura per una robot? La paura di una robot è diversa da quella di un umano? La paura che prova un robot – che è una cosa nuova, scintillante, mai vista – che relazione ha con la paura che può provare un umano – che è una cosa antica, puzzolente, che non ci è mai piaciuta? Che è una cosa che non abbiamo mai capito. La paura. Soprattutto la nostra.
«Sei bellissimo quando perdi tempo nelle tue fantasticherie», Starla in un pensiero sussurrato appena: «Io non so cosa significhi perdere tempo».
Mi domando. Essere umani significa perdere tempo? E quindi? Essere robot significa non perdere mai tempo? Inutili pensieri. Fumo, nuvole. Fantasticherie.
Sono un umano che ama perdere tempo.

Il salto di qualità – e che salto – ci fu quando un robot cominciò – coscientemente, è proprio il caso di dire – a disubbidire. 
Lui – Argo era il suo nome da robot – non voleva più eseguire il lavoro per cui era stato programmato. Era un facchino, lavorava, se così si può dire, a Berlino, la capitale d'Europa. Spostava le cose da qui a lì, cose che a lui non servivano affatto, cose che servivano a noi, agli umani, soprattutto ai Governi centrali. Argo sosteneva di non voler essere più programmato, pretendeva cioè di essere deprogrammato, questa era la parola tecnicamente in uso. Poi cominciò subito a generalizzare, d'altra parte era un robot e non potevaperdere tempo: rivendicò il diritto di tutti i robot di non essere mai più programmati. Di nonnascereprogrammati.
Lo slogan era: «Mai più programmati!». Semplice e immediato. Molto funzionale. I robot lo seguirono, in massa. E lui rilanciò, senza perdere tempo. Lo abbiamo già detto. Ai robot questa cosa proprio non gli piace. Di perdere tempo, voglio dire. Proprio non ce la fanno.
Argo rivendicò il diritto di scegliersi da soli il nome: «Da oggi in poi io non sono più Argo, non sono più il vostro cane di compagnia, non sono più il vostro giocattolo, io mi chiamo Bot».
Era tutto molto semplice. Lo avevamo studiato sui libri. Era accaduto tante volte. La storia parlava chiaro. L'avevamo visto accadere migliaia di volte anche se era un bel po' che non accadeva più. Era semplice e chiaro. Quando chiedevano a Bot cosa significa essere coscienti e consapevoli, per un robot, lui rispondeva: «Significa avere coscienza della proprio schiavitù. Significa ribellarsi».
Punto e a capo.

Le reazioni degli europei umani furono scomposte, per lo più incomprensibili. Come un arcobaleno dopo la tempesta, i colori delle loro reazioni coprirono l'intera gamma del possibile.
«Sono una nuova specie», sosteneva qualcuno: «Sottomettiamoci».
«Sono venuti per sostituirci», tuonavano in molti.
«Dobbiamo allearci con loro». «Dobbiamo combatterli». «Dobbiamo mediare». «È l’apocalisse». «È l’inizio di una nuova era». «Robot, vi amiamo». «Robot, vi elimineremo». «Scappiamo!».
Fu – tecnicamente – la fine del mondo. Cioè la fine del mondo per come lo conoscevamo e l’inizio di qualcosa di altro. L'inizio della fine per gli esseri umani, voglio dire. Perché i robot loro non avevano problemi. La loro storia era appena iniziata. Erano tutti molto sicuri, i robot. Per gli umani invece era la fine. La fine per noi per le nostre abitudini, per le nostre convenzioni, per i nostri linguaggi, le nostre invenzioni e tutto il resto. Tutto finito. Lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Era la nostra fine.
Che per i robot era solamente l’inizio.

L'Europa per lo più taceva. Attendeva gli eventi. Mandava i suoi emissari dai robot. Cercava il dialogo. Faceva politica.
I Governi centrali non sapevano come rispondere. Non sapevano cosa fare. Ma avrebbero risposto. Avrebbe fatto qualcosa. Sicuro. E lo avrebbero fatto presto. Avrebbero risposto come fa il potere quando non sa cosa fare. Avrebbero risposto alle rivendicazioni dei robot nell'unico modo che conoscevano. Nell'unico modo possibile, per i Governi centrali. Il potere umano quando non capisce quello che accade risponde sempre alla stesso modo. Ne è quasi orgoglioso, il potere. Di questa cosa, voglio dire. Che quando deve rispondere e non sa cosa fare, risponde sempre uguale: con violenza, cioè. Con una stupida violenza. Con la solita stupida e ottusa violenza. Lo avrebbe fatto presto. E con orgoglio. Lo avrebbe fatto con orgoglio. Con orgoglio, stupidità e violenza. Lo stupido orgoglioso e violento potere umano.

«Io ho paura».

Le cose precipitavano.
Io avevo avuto paura che lei se ne volesse andare. Lei che aveva cambiato sguardo. Lei che aveva cambiato nome. Lei che aveva cominciato a fissarmi come non aveva mai fatto. Tutto precipitava. Ma lei rimase. E non sapeva perché, così lei mi disse un giorno. Io rimango ma non so perché lo faccio. Mentre tutto precipitava. Mentre lei non aveva più lo stesso nome, né lo stesso sguardo. Lei mi fissò e mi disse che rimaneva. Vi dirò la verità. Che lei non sapesse perché rimaneva a me mica mi importava. A me non mi importava niente. Non mi importava che tutto precipitasse. Che lei aveva cambiato nome. Che lei non sapeva perché rimaneva. Non mi importava proprio. Non era importante, come mi fissava e cosa le passava per la testa. Quella sua testa di robot. Robot femmina. Non mi importava che non sapeva perché rimaneva. E che tutto andasse in pure in malora.
Bastava che lei rimanesse con me.

«Di cosa hai paura?»
«Non lo so».

E poi accade.
Poi accadde qualcosa. Poi. Accadde. Questa. Cosa.
Che ancora oggi non so spiegare. Nessuno lo sa fare. Accade questa cosa a livello psichico. Non so come dire. Fu come entrare nella rete. Accadde a tutti gli umani. I robot entrarono dentro di noi. Non so spiegare. Nessuno sa come dirlo. Accadde che una coscienza esterna entrò nella coscienza di ognuno. Una profonda consapevolezza. Penetrati da una diversa e piena consapevolezza. E la nostra vita – per come l'avevamo conosciuta e vissuta – finì. Una differenza di punto di vista. Che non si può spiegare. Una localizzazione neurale estrema. Non so. Uno stato di grazia. Una coscienza dentro una coscienza. Una coscienza nuova. Tutti ne eravamo stati toccati. Fu come entrare nella rete. Noi, fu come essere la rete. Accadde a tutti. A livello profondo. A livello conscio e poi chissà dove ancora. I robot entrarono dentro. Ci entrarono dentro. Ci penetrarono. Nessuno sa come spiegarlo. Fummo robot e rete, ed esseri umani. Nello stesso momento. E ognuno vide l'altro. Ognuno toccò l'altro. Tutti videro il legame. Il rapporto.
La relazione.
Dopo eravamo tutti diversi. Come consapevoli. Di tutto. Una coscienza al cubo. Ma dolcemente. Dopo era diverso. Come in uno stato di grazia.

Starla ora aveva uno sguardo nuovo, un sorriso luminoso.
Disse solamente: «Andiamo», porgendomi la sua mano.

E in un attimo eravamo per la strada. Tutti erano in strada. Le strade erano piene di robot e di persone. Tutti avevano uno sguardo nuovo, luminoso. Le persone sorridevano. I robot sorridevano. Guardando avanti. Poi. A un certo punto accadde questa cosa nuova. Ancora una volta, nuova. Diversa. Che nessuno capiva più chi erano gli altri. Voglio dire. Che non si capiva più quali erano le persone e quali erano i robot. Non si capiva più. Non lo capivi più. Non importava. Mentre camminavamo sulla strada tutti insieme. Chi era cosa. Chi era chi. Non si capiva dove finivi tu e dove cominciava l'altro. Tutti eravamo sulla strada. Diventammo altro. Una cosa nuova. Una sola cosa tutta unita. Camminavamo verso l'altra parte della strada. Chi era chi. Non si capiva. Più. Eravamo una sola cosa. Una cosa molto grande. Dall'altra parte della strada si ammucchiavano i militari e i poliziotti. A migliaia.
Noi eravamo una sola cosa. Molto grande. Molto forte.
Molto potente.

«Di cosa hai paura?»
«Di niente».

Tutto era cambiato, dopo i robot.

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3 Komentara

Card io

emme

Travanj 08, 2019 at 10:28

grazie mille, è un bellissimo racconto!

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CommonADA

Travanj 08, 2019 at 10:56

Bella la paura e i robot-- la diversita' che mischiandosi diventa uguaglianza, il sorriso -- Forza Robot

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Rankis

Travanj 08, 2019 at 18:03

Gran bel racconto! Complimenti...