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STORIE

“Che hai fatto?” “Niente” - Donne detenute

L’ambito delle prigioni, dell’esecuzione penale, delle persone detenute, è un ambito estremamente complesso, e il sottoinsieme della detenzione femminile forse lo è ancora di più; necessariamente, si esulerà da una critica generale del sistema penitenziario, prendendo per buoni concetti come “trattamento” “osservazione scientifica” “rieducazione”, ecc, solamente a fini euristici perché il problema della detenzione femminile oltre a comprendere l’inefficacia e l’ingiustizia dell’esecuzione penale detentiva tout court, assomma al suo interno, e a ben vedere al suo esterno, la mancanza e l’inadeguatezza di una rappresentanza di genere (i) e di conseguenti politiche e azioni in tal senso. Se è vero che all’interno del carcere i detenuti e le detenute hanno dei vissuti amplificati, in termini di intensità o di assenza di emozioni, anche i problemi esterni generali, se inseriti in un’istituzione totale come il carcere, si amplificano e acuiscono.

Necessariamente, si parlerà di una sola parte delle detenute, la più ampia in termini numerici: le detenute per reati comuni, ladre, rapinatrici, spacciatrici, prostitute: zingare, sottoproletarie, tossiche, straniere, evidenziando anche come ci siano differenze enormi nelle condizioni di vita delle detenute anche in base all’Istituto penitenziario dove sono ristrette, perché purtroppo il sovraffollamento strutturale porta ad un non rispetto dei livelli di prestazione essenziali che dovrebbero essere garantiti, tra i quali anche la fornitura idrica, per esempio.

Il confronto con il vissuto detentivo maschile, che andrà per lo più a dimostrare che l’impostazione data dal nostro Ordinamento Penitenziario alla vita detentiva, proprio perché strutturato nella stessa maniera per uomini e per donne sia in realtà, e proprio per questo, nettamente peggiore per le donne, non intende santificare le carceri maschili: la prospettiva è sempre, fortemente abolizionista; per quanto si andrà ad esporre, l’ambito della detenzione femminile potrebbe essere adatto per una qualsiasi sperimentazione in tal senso, o comunque attenuativa. Gli istituti a custodia attenuata sono una rarità in Italia, ne esistono per tossicodipendenti (ICATT), e solo per uomini, e per madri con bambino (ICAM), tentativo di superamento delle aberranti sezioni nido all’interno degli istituti femminili.

Per quanto l’esperienza delle ICAM sia senz’altro positiva, evidenzia subito che la necessità di una detenzione “diversa” viene colta dal legislatore solo quando la donna si manifesta come madre; non viene presa in considerazione come tossica, ma come madre, sì: l’ultima legge varata specificatamente per le donne detenute, la Legge 40/2001, cosiddetta “Legge Finocchiaro” è infatti riservata alle detenute madri.

 

Anche a livello grammaticale il femminile è residuale, derivazione: Carcere è una parola che al singolare è di genere maschile, al plurale femminile; non è l’unico nome che si comporta in modo anomalo a livello grammaticale, ma nel caso specifico questa anomalia riflette l’anomalia di un sistema pensato e tarato quasi esclusivamente al maschile, la dimensione femminile appare quando si declina la parola al plurale, dopo, per eccezione.

In piccola parte la scarsissima attenzione che si riserva alla donna detenuta rispetto all’uomo deriva dal numero delle donne detenute rispetto agli uomini, che in percentuale rimane sotto il 5% da sempre.

Esiste nell’ordinamento penitenziario il principio di differenziazione/individualizzazione del trattamento, ma è una differenziazione che non opera in base al genere, ma solo rispetto al grado di giudizio, al tipo di reato, ecc.

Andando a ritroso nel tempo, emerge fortemente come la donna sia sempre stata considerata criminale non solo per il mancato  rispetto delle leggi, ma anche in seguito alla sua condotta morale: ora, qualsiasi cittadino è in qualche modo costretto a raffrontarsi con norme morali implicite od esplicite, in base alla sua educazione e anche in base ad una libera scelta di valori, ma è solo la donna che, da sempre, viene sanzionata con il carcere per condotte che sostanzialmente afferiscono alla sfera sessuale e non vengono considerate normali. Esulando dall’ambito carcerario, se pensiamo al diritto all’aborto per esempio, vediamo come questa scelta sia ancora sanzionatissima in modi diversi, pur esistendo leggi, frutto di battaglie politico-sociali, che finalmente la tutelano. 

Cesare Lombroso, che con tutti i suoi limiti senz’altro ha dettato temi e orientamenti nella criminologia moderna, titolava il suo primo testo sulla donna criminale ”La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”; un successivo suo testo, “La donna delinquente”, vede in copertina una donna contornata da maiali, tanto per definire la cornice fortemente moralista entro la quale viene considerata la donna nella criminologia, anche in un’ottica “scientifica” come quella di Lombroso.

Ancora prima della detenzione “morale”, provvedimenti come il foglio di via per le prostitute e il manicomio in cui si chiudevano le donne “scomode”, rendono immediatamente evidente come la condotta morale della donna, e solo della donna, sia stata oggetto trasversalmente nei secoli di una particolare attenzione sanzionatoria, in particolare per quanto riguarda il controllo della sfera sessuale-riproduttiva. Questo si inserisce in una condizione di  pressione patriarcale molto ampia - naturalmente non  riservata alle sole detenute -, che persiste anche ai giorni nostri, e che vede la donna non solo punibile  perché immorale, ma avente una base biologica e psichica più debole, più corruttibile, ai limiti dell’imputabilità: l’imputabilità nel diritto penale esiste solo in presenza della capacità di intendere e di volere, ed è alla base del “doppio binario”, - ossia il coesistere di esecuzione penale e misura di sicurezza, per cui se una persona non è imputabile ma ritenuta pericolosa puo’ essergli comminata una misura di sicurezza, anche detentiva, come gli ex-OPG e adesso le REIMS -, ed anche della legislazione minorile odierna, quindi di fatto alla donna veniva riconosciuta una “capacità di intendere e di volere” pari a quella di un ragazzino (vigeva la cosiddetta “infirmitas sexus”, parzialmente abolita con la Legge 1176 del 17 luglio 1919, “Norme circa la capacità giuridica della donna”)-

 Questo strato di forti condizionamenti e limiti si amplifica enormemente all’interno di un’istituzione totale come il carcere, ed il risultato è un’implosione piuttosto che un’esplosione di questo magma, come andremo a vedere. 

Partendo dal presupposto che la rieducazione carceraria, basata sull’”osservazione scientifica della personalità” (artt 13 e seg. Ordinamento penitenziario) è un concetto che affonda le radici teoriche nel positivismo lombrosiano,  e aggiungendo che l’osservazione scientifica di una persona di fatto in cattività avrà un grado di fallacia massimo, se deve fornire predizioni sul comportamento del soggetto all’esterno ed essere la base per l’ottenimento dei benefici di legge, e quindi già di partenza tutto il sistema di esecuzione penale è un gigante dai piedi d’argilla e tanto varrebbe scegliere ad estrazione quali persone possano essere ammessi ai benefici premiali, partendo da questa doverosa specifica, ma facendo finta che sia utile: di quale rieducazione hanno bisogno le donne?

I percorsi rieducativi intra-murari sono strutturati nella stessa maniera per uomini e donne, e vertono, fondamentalmente, sulla presa di responsabilità rispetto al reato, sul disconoscere una condotta di vita illegale, ecc. Una parte fondamentale è la conoscenza da parte dell’operatore che lo avrà in carico, del detenuto, la cosiddetta osservazione scientifica della personalità. Come può un osservazione essere uguale nel metodo per un uomo e per una donna? Quello che differenzia fortemente i generi, nel caso di persone detenute, è il grado e la facilità d’emersione del vissuto drammatico dal profondo della persona. La grandemente minore percentuale di donne che entrano in carcere (5% circa del totale) può dirci tante cose, la più evidente è che la donna arriva molto meno alla commissione di atti criminali, per i più disparati motivi (e non, come diceva la criminologia storica, perché più stupida, debole, infantile). Ma, avendo esperienza dei vissuti delle detenute, non può non emergere come in quel 5% si assommino drammi,  abusi, violenza, inconsapevolezza, senso di colpa, che dota quel 5% di un peso specifico di drammi molto, molto, più alto che nel 95% maschile. E’ come se quel 5% rappresentasse tutte le sofferenze delle donne in quanto donne, in primis la sopraffazione maschile. Molte delle condanne per omicidio sono molto ridotte per le donne, essendo in via giudiziaria spesso  accertato che l’exploit omicida deriva da abusi lungamente ripetuti, in genere da parte del marito.

Non è facile verificare a livello statistico come le donne arrivino al crimine per disperazione, coercizione, tossicodipendenza (anche da farmaci), una tossicodipendenza derivante nella stragrande maggioranza dei casi da una necessità di anestetizzarsi rispetto agli abusi subiti in ambito familiare e non, abbandoni ad ogni livello, degrado, emancipazione mancata.

“Che hai fatto? Niente” è l’emblema dell’atteggiamento che le detenute hanno nei confronti della relazione d’aiuto non solo in ambito carcerario: non si fidano, ed è un comportamento comune che riguarda chi ha subito abusi. Perché la stragrande percentuale di donne detenute viene da un vissuto non già atipico, abbandonico, o semplicemente violento, come può succedere agli uomini: i loro vissuti sono grandemente atipici, grandemente abusanti, grandemente violenti, spesso costellati da stupri. La violenza che ricevono non è relegata al periodo dell’infanzia o dell’adolescenza: tendono a ricercare la persona abusante, che prima è stato il padre, poi sarà il fidanzato o il marito, o anche un’altra donna. Gli abbandoni che sperimentano sono totali e l’abbandono diventa una costante di vita: emblematica è l’immagine del giorno dei colloqui al maschile: l’area di ricevimento è stracolma di gente, mentre al femminile, quasi il vuoto.

La detenuta tace, nasconde, è aggressiva, “una tossica” detto in modo sprezzante, cattiva. Le detenute sono cattive. 

La donna abusata è cattiva, le si dà una condizione, le si affibbia un tratto di personalità.

La cattiveria presunta delle detenute donne è un alibi. Un alibi più o meno conscio per il personale educativo, che dispensa da una vera e propria pedagogia, sono donne “da tenere a bada”, “chè tanto sono irrecuperabili”, “entrano ed escono”, ormai il carcere è “casa loro”, “stanno meglio dentro che fuori”, dentro, in cattività, appunto.

Nella migliore delle ipotesi, la relazione tra educatrice, portatrice obbligata (l’obbligo, anche se non fosse di matrice culturale, proviene dall’istituzione totale stessa) di una cultura borghese quindi sostanzialmente lombrosiana, convinta dell’efficacia del trattamento penitenziario, e detenuta sottoproletaria si ammanta di un maternage freddo e falsato, in cui nessuno si trova a suo agio: non l’educatrice, la quale non riesce ad instaurare una vera relazione d’aiuto, ma finirà probabilmente manipolata; non già la detenuta, che non vuole una matrigna, o che comunque trova anacronistico quell’interessamento, che è comunque residuale, ipocrita, inutile.

 

Il reato è devianza dalla norma, ma i reati femminili sono più spesso frutto non tanto di un disconoscimento o di un’interiorizzazione di norme asociali (mio padre rubava, io pure perché questo è l’esempio) come succede per gli uomini, quanto di una fuga dalla mancanza di norme altrui, mancanza che si è riversata sui loro vissuti, sui loro corpi, sui loro figli spessissimo tolti o addirittura mandati in adozione.

Come potrebbe un agente pedagogico, anche ben intenzionato e ben formato, fare fronte a questo magma di sofferenza di genere?

 

Fallisce sul nascere quella sorta di magistralità femminile che dovrebbe discorrere con le donne di loro stesse (nelle infinite declinazioni dell’essere donna) in favore di un approccio moralistico e dunque non empatico e neanche simpatico, che riproduce il fallimento istituzionale, dello stato, se vogliamo, nell’aiuto a queste identità perse e, sottolineo ancora una volta, abusate.

Fallisce perché l’obiettivo educativo non è chiaro: essendo un lavoro sull’identità di genere, sull’abuso, sull’autostima, è estremamente complesso e difficilmente affrontabile all’interno del carcere, anche per la cronica carenza di risorse educative;

perché non è favorevole l’ambiente educativo, il carcere non è una scuola, le priorità sono il controllo e l’educazione residuale;

perché le detenute, come già detto, si rivolgono al loro interno, non esternano facilmente, non si fanno convincere, si isolano da loro stesse e dalle altre, molto più spesso di quanto avvenga negli istituti maschili, diventando le più fragili anche nuovamente vittime delle altre detenute.

Ribaltare l’implosione delle  donne detenute, liberare quell’energia e quella forza in senso positivo significa allora eliminare completamente l’idea di detenzione femminile e sostituirla con l’idea di riappropiazione rispetto a istituzioni mancanti, e risarcimento rispetto ad abusi ed abbandoni subiti e non rielaborati. 

Se, come scriveva Wanda Tommasi…”E’ stato il pensiero femminile contemporaneo a riconoscere che la differenza sessuale è un significante che organizza la sfera sociale e quella soimbolica che fornisce ad entrambe il loro centro di orientamento, a partire dal quale sia il sociale sia il simbolico si strutturano a livello profondo, si organizzano ed articolano tutte le altre differenze al loro interno, a partire da quella più originaria, la differenza di essere donna/uomo”, allora una riorganizzazione e uno stravolgimento delle idee sulla detenzione femminile diventa necessaria non solo per la teoria abolizionista o attenuazionista e quindi per ciò che è teoricamente riferito alla detenzione, ma sarebbe funzionale e necessaria a una critica sociale generale che abbia il coraggio di definire una reale pratica del cambiamento che allora sì, proprio perché andrebbe a liberare forze enormi che per ora si rivolgono in negativo sulle donne, sarebbe davvero rivoluzionaria.
Miss K - ex-frequentatrice patrie galere

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2 Commenti

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Quia

maggio 30, 2019 at 15:16

Grazie di questo importante e denso contributo. Mi ha fatto ripensare a un libro di Goliarda Sapienza

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CommonADA

giugno 02, 2019 at 10:26

Molto interessante— personalmente non sapevo la differenza di percentuale fosse così drammatica