Quando si parla di emergenza abitativa, Roma viene considerata spesso un caso emblematico perché all’interno dei suoi confini sono presenti all’incirca un centinaio di palazzi occupati. Questo fenomeno, non è, in realtà, esclusivo della Capitale e, soprattutto, è tutt’altro che omogeneo dal punto di vista della natura dei palazzi occupati e degli scopi delle occupazioni.
A riprova della complessità del fenomeno, in un precedente numero del Menabò è stata abbozzata una tipologia basata sulla differenza “etica” tra le varie forme di occupazioni romane, che comprende gli appartamenti sfitti di proprietà pubblica così come gli ex edifici (pubblici o privati) non originariamente concepiti con finalità abitative, in particolare scuole o uffici ormai abbandonati da anni. Dal punto di vista invece di chi occupa, se nel primo caso parliamo di iniziative individuali o addirittura afferenti alla criminalità organizzata, nel secondo caso si tratta invece di movimenti di lotta per la casa legati alla sinistra extraparlamentare: la differenza principale sembra stare insomma nella politicità dell’atto, nella sua volontà o meno di rivendicare un diritto – l’abitare, con tutti i diritti e i servizi annessi – senza appiattirsi sul soddisfacimento del mero bisogno individuale – la casa, o meglio, un tetto sopra la testa.
Quella delle occupazioni abitative dei movimenti, quando non criminalizzata ed equiparata all’altra categoria (come fa l’articolo 5 del Decreto Lupi 2014), tende a essere però descritta esclusivamente come l’inevitabile – seppure illegale – risposta a una mancanza: nello specifico, l’assenza di edilizia pubblica per la maggior parte delle persone a basso reddito nella città. Eppure, entrando personalmente in una di queste occupazioni e vivendoci per otto mesi a fini di ricerca, ci si rende immediatamente conto di due ulteriori aspetti lì presenti e quasi del tutto assenti sul fronte istituzionale: il riconoscimento e la costruzione quotidiana di una stanzialità per chi ci vive; un dibattito continuo sulle criticità della questione abitativa a Roma, che offre l’occasione per nuovi esperimenti di democrazia.
Procediamo con ordine. Parlando di mancata stanzialità, mi riferisco in particolare a quegli interventi rivolti alle fasce più “altre” della popolazione romana (ieri i baraccati, oggi principalmente i migranti) alle quali sono sempre state applicate soluzioni abitative di carattere emergenziale e con uno scarso riconoscimento della loro legittima volontà di costruzione di una sfera privata domestica – costruzione che viene socialmente “accettata” solo se si realizza attraverso l’intermediazione del mercato. Un tempo questa emergenzialità prendeva la forma delle baracche informali o dei “baraccamenti ufficiali”, delle “case rapide” o, nell’ipotesi più favorevole, delle case popolari, che erano comunque meno pregevoli delle cosiddette “case economiche” destinate ai ceti medi emergenti (Vereni, in ANUAC, 2015). Oggi, a fronte di un numero irrisorio di assegnazioni rispetto alla domanda, il Comune di Roma predilige strumenti come il contributo all’affitto (che difficilmente viene erogato o rinnovato oltre i quattro anni) o i costosissimi (e precarissimi) residence e centri d’accoglienza, ignorando sia le conseguenze a lungo termine sia le aspirazioni di sedentarietà che pure molti dei diretti interessati possono avere.
A questo proposito, un altro problema è identificabile nella mancata consapevolezza circa la varietà della compagine sociale in emergenza abitativa, dal momento che l’edilizia pubblica – anche a causa delle vecchie e ampie metrature degli appartamenti – continua a occuparsi prevalentemente dei nuclei familiari numerosi trascurando single, divorziati, giovani coppie e anziani: non è un caso, dunque, se all’interno delle occupazioni abitative, oltre alle famiglie migranti, spiccano queste categorie.
Entrare in un’occupazione romana per un’indagine etnografica significa quindi trovarsi di fronte a qualcosa di molto più strutturato e dotato di un proprio sistema di senso che non a uno sfondo asettico in cui gli attori improvvisano come meglio possono una qualche forma di sopravvivenza. Il continuo rischio di sgombero genera una precarietà che ha però degli aspetti profondamente stanziali. Dal punto di vista spaziale, infatti, i movimenti chiedono non nuove costruzioni ma il recupero di porzioni di città inutilizzate, mentre da quello relazionale avviene una complessa operazione di “normalizzazione dell’altrove sociale” attraverso la quale si dispone di e si arreda uno spazio privato simile a un normale appartamento; al tempo stesso, però, si è responsabili nella co-gestione e nella cura degli spazi comuni e, di conseguenza, dello spazio pubblico interno all’occupazione.
Sotto il secondo aspetto, ovvero l’occasione per praticare nuovi esperimenti di democrazia, il discorso della convivenza con il “diverso” occupa decisamente una posizione centrale. A partire dalla fine degli anni Ottanta, infatti, Roma è divenuta una città d’immigrazione extraeuropea e l’emergenza abitativa dei migranti, sempre più relegata a problema amministrativo e di “decoro”, è stata politicamente adottata dai movimenti della sinistra antagonista: in questo modo, i movimenti si sono autoproclamati portavoce dell’alterità sociale rimasta esclusa dalla politica e hanno sopperito alla loro mancata stanzialità attraverso le occupazioni, all’atto pratico, e attraverso la presa in carico della loro presenza politica, sul versante discorsivo. Se all’interno di questa categoria un tempo spiccavano gli immigrati dal Meridione d’Italia, negli attuali movimenti troviamo invece i migranti stranieri e le battaglie legate al tema della loro libertà di movimento e residenza sul territorio italiano. L’alterità che esprime chi è in emergenza abitativa da un certo punto in poi è divenuta anche “culturale”, e ciò ha fatto sì che nelle occupazioni abitative vi fosse una co-presenza di occupanti di cittadinanza italiana e straniera.
Laddove però un tempo era l’atto stesso di occupare uno spazio vuoto e “rompere i sigilli” a qualificarti e legittimarti come occupante, a partire dal già citato articolo 5 del decreto Lupi del 2014 si è interrotta la consolidata pratica di occupare nuovi spazi a Roma da parte dei movimenti. In altre parole, lo spazio a disposizione per nuove persone in difficoltà dentro le occupazioni è divenuto a disponibilità limitata e l’atto di occupare non è più identificabile esclusivamente come un singolo e “simbolico” atto iniziale, condotto da gruppi di individui in attesa di una casa popolare, ma diventa un processo continuo attuato da diversi nuclei che segmentano lo spazio per farne una sequenza interconnessa di unità abitative riconoscibili e distinte, anche al fine di rifunzionalizzare e ridare vita a uno spazio abbandonato.
Questo ha comportato, tra le altre cose, la sperimentazione di nuove modalità di gestione della convivenza interna. In mancanza di soluzioni alternative sul fronte istituzionale, per accedere o continuare a “meritarsi” quel bene sempre più scarso non basta più essere semplicemente in emergenza abitativa. Il sistema di premialità che si crea al loro interno è, però, basato non sul potere d’acquisto (dunque sulla possibilità o meno di poter pagare un affitto), ma sul grado di partecipazione alla lotta per la casa che diviene così una sorta di moneta-merce. Per vivere in un’occupazione è quindi necessario condividere una serie di principi e valori di base che riflettono non solo la necessità individuale di ottenere un giorno l’agognata casa popolare, ma anche la consapevolezza della necessità di dover “lottare”, con la propria presenza e con la partecipazione a manifestazioni, cortei e iniziative, per una comunità aperta, accogliente e solidale. La casa, più che in un’economia di mercato, si configura come inserita in un sistema di economia morale, secondo l’interpretazione di Didier Fassin (in Annales. Histoire, Sciences Sociales, 2009) che la definisce come la “produzione, distribuzione, circolazione, e uso dei sentimenti morali, delle emozioni e dei valori e delle norme e dei doveri nello spazio sociale”.
Si produce così un sistema di valori locali basato su principi diversi rispetto ai comportamenti di tipo individualista tipici dei meccanismi competitivi e di mercato: internamente, questi valori prendono anche la forma di regole di condotta vere e proprie che prevedono, ad esempio, il rispetto della diversità culturale, il rifiuto della violenza e di qualsiasi comportamento criminoso all’interno degli stabili, l’importanza e la necessità di provvedere a turnazioni per le pulizie degli spazi e la partecipazione a iniziative politiche su temi di interesse comune. Nonostante possa risultare una forma di ricatto morale, nonostante le inevitabili conseguenze dettate dalla convivenza “forzata”, molti di questi spazi forniscono innumerevoli spunti su come vada gestito l’inevitabile disagio che la convivenza comporta, e ci mostrano come potrebbe essere (o forse già è) la società di domani.
La logica soggiacente questo sistema è che più si partecipa alla lotta secondo queste modalità e rispettando queste regole, più si acquisisce la consapevolezza di trovarsi in un luogo che non è un punto di arrivo – come pure molti lo interpretano e vivono –, ma un punto di partenza di un percorso politico finalizzato all’ottenimento sia di una casa sia di tutti i diritti legati a una piena cittadinanza.
Una consapevolezza che implica l’ampliamento ciò che intendiamo quando parliamo di abitare, che non si limita all’ottenimento di un tetto ma rivendica come un diritto anche tutto ciò che è necessario per poter condurre un’esistenza dignitosa, pur non disponendo di un reddito soddisfacente. A questo proposito, è abbastanza esplicativo quanto mi ha detto un occupante:
“Non è solo la casa. Noi ci siamo rivolti allo sportello perché ci mancavano tanti altri diritti: la salute, il lavoro… anche la cultura, anche il teatro che si fa qui, cioè, a noi non manca solo la casa.
Noi qui non ci siamo presi solo la casa, ci siamo ripresi i diritti negati”
In conclusione, pur partendo da una condizione di bisogno, le ragioni, anche politiche, di ripensamento della questione abitativa all’interno di questi spazi sono innumerevoli. Tutta la superficie degli edifici è intesa e interpretata come “potenzialmente abitabile”, alla luce di una concezione di abitare più ampia che include anche l’utilizzo e il massimo sfruttamento di tutti gli spazi presenti per servizi sociali, attività culturali e momenti di incontro con il territorio. Dunque, appiattire l’analisi sul binomio legale/illegale può risultare decisamente fuorviante.
Tratto da Eticaeconomia
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