Il 18 dicembre 2018 un gruppo di accademici ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare sui beni comuni, che riprende immutata la sintetica delega al governo elaborata dalla Commissione Rodotà nel 2007-08. A oggi però mancano all’appello molti degli studiosi che avevano fatto parte sia di quella Commissione sia della seconda Commissione Rodotà, che si era autoconvocata coinvolgendo attivisti e attiviste di movimenti e realtà sociali in un importante lavoro di ripresa e aggiornamento di quel testo. Anche noi come molti altri e altre di quella stagione di lotta sui beni comuni, come di quella attuale, non compariamo tra gli aderenti. Crediamo però sia importante prendere la parola e spiegare le ragioni per cui una proposta, che era all’avanguardia dieci anni fa, oggi risulta insufficiente: è un errore non tenere conto degli avanzamenti, delle sconfitte e delle necessità che si sono palesate in tutti questi anni. La chiarezza delle posizioni è il nostro modo per tessere un terreno di dialogo che questa scelta rischia di compromettere, con nostro grande dispiacere.
Ma è anche un modo per riprendere a livello nazionale il filo di un percorso collettivo di elaborazione di proposte e costruzione di piattaforme tra esperienze, singoli individui e comunità di pratiche che si riconoscono nel percorso dei beni comuni.
Il primo di una serie di appuntamenti di questa rete itinerante sarà il 17 febbraio, all’Asilo di Napoli.
Un appello per costruire in comune lo spazio urbano e difendere i beni comuni naturali
Premettiamo che non possiamo che essere d’accordo sulla necessità di rinforzare anche a livello nazionale la battaglia dei beni comuni contro «la dominante logica predatoria neoliberista» che si sta combattendo da anni, territorio per territorio, con tante esperienze eterogenee di lotta e pratiche di gestione collettiva, che sosteniamo e a fianco delle quali ci siamo sempre schierati.
Ma nessun rilancio può avvenire chiedendo le adesioni a una proposta pre-confezionata, che ignora deliberatamente sia quanto si è concretamente sperimentato a difesa dei beni comuni negli ultimi 10 anni, sia l’elementare evidenza che le reti si costruiscono nei processi e nella loro pratica quotidiana e non cavalcandoli o strumentalizzandoli. Questo vale per i movimenti a cui oggi, a giochi fatti ancora prima di cominciare, si chiede di organizzarsi solo per fare banchetti e raccogliere le firme (su di una proposta per giunta non ancora pubblicata ufficialmente sul sito), e vale anche per la figura di Stefano Rodotà, sulla cui memoria si cercano consensi per percorrere contenuti e modi molto diversi da quelli che difendeva.
Premessa: i beni comuni non sono sovrani
«I beni comuni tendono così a configurarsi come l’opposto della sovranità, non solo della proprietà» (Il diritto di avere diritti, 2012, p. 125). Così scriveva appunto Stefano Rodotà: una proposta di legge che fin dal sito e comitato promotore accosti il suo nome a qualcosa che abbia a che fare con un concetto come quello di sovranismo, che è oggi usato in ottica nazionalista e autoritaria, è semplicemente improponibile. Si flirta dunque pericolosamente col sovranismo, rimuovendo peraltro un dibattito che già nella prima Commissione vide proprio Rodotà opporsi alle tentazioni di alcuni di scivolare su questo piano inclinato.
Il metodo della proposta
A preoccuparci non è solo il brand sovranista. Ci sono anche problemi di metodo e di merito.
Quelli di metodo sono evidenti: questa proposta ha il sapore di un’occasione persa, perché sarebbe stato indispensabile un lavoro collettivo ed esteso. Il metodo con cui è stata costruita la proposta non ha seguito il tipo di percorso inclusivo, non accademista e gerarchico, partecipato e popolare, che la pratica quotidiana dei beni comuni insegna.
Un problema politico: la delega al Governo
Questa proposta non ci dà nessuna certezza sulla salvaguardia dei beni comuni perché non detta una disciplina dettagliata, ma è una legge delega. Quindi, ammessa e non concessa la sua approvazione (mai nella storia della Repubblica una legge di iniziativa popolare è stata approvata dal Parlamento), l’effetto sarebbe consegnare al Governo una delega per una riforma del Codice civile; come mostra la storia degli abusi dei decreti legislativi, quando una delega non è ben circostanziata si consegna all’Esecutivo un potere ancora più ampio nella definizione dei decreti collegati.
Non vogliamo in alcun modo trovarci a ripercorrere la delusione post referendaria del 2011 (cui speriamo si possa rimediare almeno in parte in futuro con l’approvazione della proposta di legge sulla gestione pubblica e partecipativa dell’acqua). Era un caso giuridicamente completamente diverso, ma quella storia ci dice anche dell’assoluta necessità di prevedere in questi casi un impianto normativo quanto più preciso e dettagliato possibile, per non rendere ancora più facile il gioco a chi vuole disattendere un mandato popolare.
Sotto questo profilo, la delega non contiene nessuna effettiva garanzia sulle forme di uso e amministrazione dei beni comuni in senso comunitario o anche di semplice democrazia partecipativa.
Un’assenza che delegittima anni di sperimentazioni e lotte: i beni comuni urbani cancellati
La proposta definisce i beni comuni a partire dal fatto che essi esprimano «utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». Invece, definisce come «beni pubblici sociali» «quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Separando in questo modo diritti fondamentali e diritti civili e sociali della persona si aprono le porte all’interpretazione restrittiva dei primi e la scusa per dire che beni urbani (o rurali) in cui si condividono mezzi di produzione e svolgono iniziative di carattere mutualistico non potrebbero comunque essere qualificati come beni comuni perché rivolti “solo” al soddisfacimento dei diritti sociali e civili.
La nostra esperienza con gli usi civici e collettivi urbani ci mostra che non si può distinguere in modo astratto tra diritti fondamentali e diritti civili e sociali. Quando una comunità di abitanti si impegna per recuperare dei beni restituendoli a un uso aperto e non esclusivo si crea ugualmente uno stretto collegamento coi diritti fondamentali, in quanto tali beni forniscono prestazioni sociali – attraverso attività mutualistiche e solidaristiche, di uso collettivo di spazi e mezzi di produzione – e sviluppano diritti di partecipazione che sono essenziali al libero sviluppo della persona. La proposta disconosce questo collegamento. Infatti, sembra escludere queste prestazioni sociali da quei «diritti fondamentali» che qualificano un «bene comune», perché collega espressamente i diritti sociali non alla categoria dei «beni comuni», ma a un diverso tipo di beni, i «beni pubblici sociali». E la differenza non è di poco conto: mentre i primi sono considerati «fuori commercio», i secondi possono essere alienati, e il loro vincolo di destinazione può essere modificato in casi determinati.
Se può essere bene comune anche uno spazio urbano o rurale in cui i diritti civili, sociali e politici sono garantiti anche dalla sperimentazione di forme di autogoverno aperte e inclusive, perché non inserirlo chiaramente? Finanche l’ultimo dei regolamenti sui beni comuni approvati in tante città italiane è più avanzato su questo punto.
Inoltre, sappiamo che questi processi iniziano non di rado con un’occupazione, e un’iniziativa popolare sui beni comuni dovrebbe riconoscere questa possibilità, ometterla significa escluderla. Il valore delle parole scritte in questo caso pesa in modo determinante, a maggior ragione se per qualcuno dei promotori «le occupazioni, che sono un metodo superato, non vanno riconosciute …. I processi vanno governati come si fece con l’ex Asilo Filangieri. […sic] Il caso del Teatro Valle a Roma è finito male proprio perché era un’occupazione. Nella gestione partecipata il Comune deve restare il dominus e deve assumersi la responsabilità di vegliare notte e giorno affinché i processi siano veramente partecipati. Se realizzate così, le occupazioni diventano oggetto di critiche, creano confusione e fanno un danno enorme alla battaglia per i beni comuni».
Un passo indietro di 10 anni: nessun riferimento a comunità e partecipazione
Per queste ragioni crediamo che la partecipazione debba essere un elemento qualificativo della categoria dei beni comuni. Altrimenti il rischio è quello di introdurre un “riconoscimento legale a due velocità”: prima i boschi, le foreste e i laghi e poi i beni comuni urbani, prima la funzione e poi la gestione, prima le fondazioni e poi gli spazi sociali… Questo rischia di creare danni gravissimi: chi tutelerà le esperienze di autogoverno di luoghi percepiti come beni comuni o delle forme di altra economia, che chiedono un riconoscimento, e invece rischiano lo sgombero a causa del decreto sicurezza solo perché non hanno o non vogliono finanziatori danarosi? Chi tutelerà gli Enti Locali senza paura che, credendo nella loro funzione pubblica, non vogliono cedere al ricatto della messa a reddito monetaria e non intendono vendere il patrimonio pubblico per far quadrare il bilancio? E vale la pena fare una battaglia legale perdendo questi pezzi?
La cancellazione del demanio
Senza una dettagliata riforma del Codice civile e del regime del demanio, la cancellazione di quest’ultimo – prevista dalla proposta – porterebbe il rischio di favorire processi di privatizzazione incontrollabili nell’attuale clima politico. È evidente che ci sia bisogno di impedire il facile processo di sdemanializzazione dei beni pubblici, ma la proposta non interviene in modo univoco sul problema del regime concessorio con cui si svuota, de facto, la proprietà pubblica. Non solo, anche qui l’assenza di un modello partecipativo rischia di far fare un passo indietro rispetto alle rivendicazioni di comitati e movimenti.
L’occasione persa: nessun nuovo vincolo alla proprietà privata
Il progetto di quella Commissione non riuscì, per equilibri interni, a spingersi oltre nella critica sull’attuale regime della proprietà privata. Oggi questa assenza rischia di pesare moltissimo, perché nella delega non ci sono sufficienti garanzie di incompatibilità con una visione neoliberista del regime delle concessioni ai privati né sui beni che il dominus privato lascia in stato di abbandono e degrado, proprio il terreno di scontro tra forme di rigenerazione urbana tese alla gentrificazione e pratiche civiche di riqualificazione e autorecupero.
Per tutte queste ragioni non ce la sentiamo di raccogliere le firme su un testo che era all’avanguardia 10 anni fa, ma che oggi risulta insufficiente. Perciò chiamiamo in assemblea il 17 febbraio, all’Asilo di Napoli, tutte le abitanti, realtà, attivisti e attiviste, studiosi e studiose a mettere a sistema le proposte sui beni comuni che in questi anni con molta fatica sono maturate in diverse realtà nazionali. Vogliamo costruire in comune una piattaforma per la condivisione e la continua sperimentazione di pratiche, saperi e strumenti amministrativi capaci di sfidare e superare lo stato di cose presenti.
Per adesioni puoi mandare una mail ad un soggetto della rete o a benicomuni.incomune@gmail.com
Rete Promotrice (in aggiornamento)
- L’Asilo – Ex Asilo Filangieri (Napoli)
- Mondeggi Bene Comune (Firenze)
- Villa Medusa – Casa del Popolo (Napoli)
- Santa Fede Liberata (Napoli)
- Scugnizzo Liberato (Napoli)
- Art Lab Occupato (Parma)
- Comitato ex Convitto Monachelle (Pozzuoli)
- Giardino Liberato (Napoli)
- Montevergini Bene Comune (Palermo)
- …
Dal sito dell'Asilo di Napoli dove è possibile scaricare il comunicato e il documento anche in Pdf