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COMMONERS VOICES

Pensare pensare dobbiamo, ancora! Appunti dall’azienda Università



Tempo fa, su Commonfare, ho letto una storia che parla di lavoro, passione e precarietà. La storia si intitola Un amore di lavoro, di Vale Forte. Un racconto breve che mi ha colpito particolarmente e che, non saprei dire per quale precisa connessione, mi ha fatto pensare a un altro testo che parla di università, precarietà, saperi, femminismi, cura e molto altro, prendendo ispirazione da Le Tre Ghinee di Virginia Woolf.  Si tratta della trascrizione di un discorso che Maria Puig de la Bellacasa – studiosa femminista nel campo degli studi femministi sulla tecnoscienza – ha pronunciato nel 2014, in occasione di un simposio organizzato dal network belga di ricerca femminista Sophia. Stimolata dal racconto di Vale Forte, ho pensato che fosse giunto il momento di tradurre il testo in italiano – cosa che avrei voluto fare immediatamente – e condividerlo su Commonfare. Questo lavoro di traduzione mi ha anche offerto la possibilità di contattare l'autrice, che ha autorizzato la traduzione e accettato con entusiasmo di entrare a far parte di Commonfare.

Il testo si intitola Pensare pensare dobbiamo, ancora! Appunti dall’azienda Università, e la versione originale in inglese è disponibile qui.


Dopo così tanti anni di assenza da Bruxelles e dal suo circolo femminista, sono stata al tempo stesso euforica e ansiosa mentre sedevo in Rue du Meridien 10 per partecipare al Grande Dibattito intitolato Pensare pensare dobbiamo! Ancora organizzato da Sophia il 21 Novembre 2014. Questo testo è una versione rielaborata del mio intervento di quella sera. È stato fantastico incontrare di nuovo così tanti buoni amici e amiche dopo tanto tempo. Piuttosto che un testo di ricerca accademica, questo testo si compone di alcune note aperte sui modi in cui l’esortazione Pensare pensare dobbiamo lanciata da Virginia Woolf risuona oggi nella mia esperienza di lavoro nell’università britannica.

Comincio il mio intervento con un omaggio personale al lavoro svolto da Sophia. Essere stata un membro attivo di questa organizzazione unica, tra il 1998 e il 2008, è stata per me una esperienza fondamentale nel percorso che mi ha portato a diventare femminista e accademica. La stanza dove ci siamo riunite lo scorso Novembre è esattamente la stessa stanza dove ho presentato il mio primo lavoro accademico più di sedici anni fa, quando Nadine Plateau ha riposto la sua fiducia in me che presentavo la ricerca contenuta nella mia tesi di laurea. Era più o meno lo stesso tempo in cui iniziai a lavorare come studentessa di dottorato, nel Settembre 1998, presso l’Université Libre di Bruxelles. Ricordo di aver reso la vita dura agli interpreti che traducevano il mio francese in fiammingo e gesticolavano verso di me per dirmi di calmarmi e rallentare (cosa che sono riuscita a fare a malapena, nervosa come ero!). Sophia aveva ideato un formato stimolante attraverso cui organizzare le sessioni di discussione, in cui studiose affermate avrebbero discusso gli articoli presentati da giovani ricercatrici. L’accoppiamento di due generazioni di saperi femministi è stato pungente e stimolante, altre volte esplosivo e altre ancora addirittura doloroso, rivelando la potenza del pensiero femminista nel costruire nuove connessioni e, allo stesso tempo, mantenere il potenziale per scuotere e sradicare. Eppure, gli sforzi di forgiare connessioni intergenerazionali  tra diverse comunità (linguistiche, politiche e professionali) sono una delle conquiste più peculiari di Sophia, e sono stata in grado di percepirlo ancora durante il dibattito dello scorso Novembre, questa volta da un'altra posizione, avendo superato la categoria di accademica a inizio carriera. La lista di tutte le cose di cui sono debitrice a Sophia è lunga, da quella prima conferenza a molte altre iniziative a supporto della ricerca femminista in Belgio. E sappiamo che il lavoro portato avanti da Sophia avviene relativamente con pochi mezzi e grazie agli sforzi di donne formidabili che, attraverso generazioni e confini linguistici, hanno offerto il loro tempo e la loro passione per continuare a connettere i movimenti femministi con lo sviluppo di corsi accademici in studi femministi e sulle donne. 

Oggi Sophia ci riunisce ancora per pensare, per riflettere sulla direzione che potremmo intraprendere circa l’articolazione del pensiero femminista e di una pratica militante, e, più in generale, per misurare la temperatura della nostra situazione. Ma quali domande noi dobbiamo pensare oggi?

Tuttavia pronunciare il ‘noi’ nel noi dobbiamo pensare nel contesto dell’invito di Sophia a discutere oggi è complicato per me. Balbetto. Non che io dubiti che abbiamo molte cose da pensare insieme, così tanto in comune, eppure non sono così sicura come ero abituata a essere  rispetto a cosa potrebbe renderci un ‘noi’ in questo momento, come potrei proporvi un ‘noi, su quali basi? Quali sono le lotte o le avventure di pensiero che possiamo condividere?

Una delle acquisizioni ben sedimentate nel pensiero e nella pratica femminista contemporanei è che il pensiero è un’attività altamente situata. Sento che ci sono molte ragioni per le quali non posso più parlare “dal” Belgio o da una posizione di coinvolgimento nella costruzioni di corsi di studi femministi e di genere nelle università in cui Sophia sta svolgendo un grande lavoro. Se molti incontri a cui prendo parte oggi trasmettono ancora un'identità femminista, le comunità di pensiero di cui faccio parte vanno sotto molti altri nomi. Forse una cosa ancora più importante per la nostra conversazione di oggi è che la persona che sta parlando qui occupa una posizione relativamente stabile, che prevede condizioni materiali estremamente diverse dalla precarietà che comporta il portare avanti una ricerca di dottorato o dell’ottenere il prossimo post-dottorato. Dato che queste condizioni non smettono di peggiorare, parlare di un ‘noi’ politico con colleghe e amici femministi di fronte a questo futuro che si sta restringendo dalla prospettiva di posizioni precarie non è scontato, e potrebbe rappresentare un atto di insensibilità. Ed esistono altre posizioni multiple frammentate che potrei tirare fuori, come ad esempio i divari generazionali, le sessualità, o la maternità “in ritardo”. 

Non intendo restringere il nostro spazio di comunicazione oggi menzionando queste situazioni disgiunte, ma intendo parlare partendo dalla consapevolezza che esistono molti modi di affrontare le nostre mutevoli ambivalenze, e quindi che il mio contributo all’attuale imperativo del pensare pensare dobbiamo non può partire da un “noi” presunto. 

Nel suo invito, Sophia suggeriva che potremmo cominciare dalle nostre esperienze. Quindi qui è dove io suggerisco di iniziare,  da qualcosa che ha contrassegnato molte delle conversazioni che ho avuto e che ho tuttora circa il pensare come femminista nel mondo accademico: l’esposizione all’inadeguatezza, o persino la sua desiderabilità potrei aggiungere; la desiderabilità dell’essere estraneo che il pensare pensare dobbiamo richiamato da Woolf trasmette fortemente, così come articola esplicitamente nel suo discorso contro le università del sua tempo dalla posizione di una “anonima e segreta Società delle Estranee”. 

Esistono diversi modi di essere inadatte; l’essere estranee è relativo. Ma gran parte del pensiero femminista è stato elaborato a partire dal prendere seriamente in considerazione quel qualcosa che non si percepisce giusto, anche se mancano le parole per esprimerlo, e dal seguire quel sentire mentre ci connette agli altri. 

Sedici anni fa, quando ero seduta in questo stesso posto per presentare un lavoro esitante, avevo un piede in quello che percepivo come il mondo alieno dell’Accademia, mentra gran parte del mio corpo, della mia anima e dei miei desideri si mantenevano su terreni che sentivo come outsider, terreni che possiamo nominare per brevità “attivismo”. Molte volte ho dovuto rendermi conto che, anche in contesto femminista, potevano condurre a scontri, e che avere desidere politici comuni non significava necessariamente essere in connessione. A quel tempo, davo la colpa all’università e alle sue dinamiche disgiuntive. Pertanto, nei dieci anni successivi la spinta femminista è stata volta a enfatizzare e nutrire i modi in cui tenere vivo uno dei poteri del pensiero femminista verso cui sentivo di avere l’impegno maggiore: la dedizione alla possibilità di costruire solidarietà tra posizioni divergenti, di modo che queste potessero prendersi cura l’una dell’altra anche attraverso le divisioni. 

Oggi mi trovo in uno spazio diverso. A volte, come molte altre persone con le loro occupazioni, sento che il mio corpo è interamente catturato dall’università, sebbene non la mia anima, si spera. E ho a cuore il disagio che sento per il fatto che c’è qualcosa di sbagliato in questo essere catturata. Quello che voglio dire è che il disadattamento mantiene vivo un senso di estraneità e il bisogno di pensare cosa questo significhi in situazioni diverse. E anche se espresso a partire da un senso molto diverso di estraneità, il pensare pensare dobbiamo di Woolf invoca questa necessità di pensare a partire dai nostri disadattamenti, da quelle situazioni che ci fanno pensare di non essere adatte allo scopo

Spesso attribuiamo il fatto di non essere adatti alle traiettorie personali, o addirittura a fallimenti. Io lo faccio tutte le volte. Eppure queste sensazioni si connettono a come tante persone che lavorano in Accademia o ai suoi margini – persone con cui condivido formazioni e desideri politici – si sentono oggi circa la loro relazione con il lavoro accademico. Condividere queste esperienze di vivere nelle crepe, dentro fragili bolle di ossigeno, e constatare che queste potrebbero connetterci, è sia una fonte di angoscia per quanto velocemente le cose si deteriorano sia una fonte di forza, se non addirittura di speranza. Sento tuttavia che le risorse per una lotta collettiva attorno a queste questioni sono carenti per molte ragioni, rivelando una urgente necessità che solidarietà sostenibili possano emergere. E tuttavia non sono sicura sulle forme che queste potrebbero assumere. Qui inizio a pensare a partire da alcuni frammenti di esperienza che si spera potrebbero connetterci, ma potrebbero anche disfare alcune delle certezze del “noi” composto che hanno accettato l’invito di Sophia a dibattere oggi. 

Queste note sono ispirate dall’invito a iniziare a (ri)pensare con il pensare pensare dobbiamo di Woolf. E questo potrebbe spiegare il motivo per il quale le mie note non sono così ottimistiche. Woolf non aveva molte ragioni per essere ottimista, vivendo sull’orlo di una grande guerra. E potremmo dire che nemmeno noi abbiamo tutte queste ragioni per essere ottimiste. Eppure io penso che coloro che sono venute dopo i movimenti femministi di massa hanno anche la possibilità di pensare insieme alle altre, e una grande storia di ribellione e solidarietà con tante gioie da celebrare. Tornando indietro al testo di Woolf nella quale pronuncia la sua chiamata al pensiero, vorrei offrire alcuni pensieri e domande con cui faccio i conti nel mio attuale contesto di lavoro all’interno dell’università britannica, situazioni che impediscono le nostre capacità di continuare a prolungare l’eredità di Woolf. Condivido questi pensieri tra le femministe che vivono nel contesto belga, nella speranza che questi possano parlare a diverse esperienze situate, nell’università e non.

Cercando ancora una volta queste tre parole che mi hanno segnato così tanto, ho aperto nuovamente il testo de “Le Tre Ghinee” per cercare la citazione esatta, e ciascuno dei paragrafi che seguono iniziano con una citazione dal libro e con ciò che queste richiamano alla mia mente.

# Pensare, pensare dobbiamo - pensieri interiori

Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio; mentre tra la folla osserviamo l’incoronazione e l’investitura del sindaco di Londra, mentre passiamo accanto al Monumento dei Caduti; mentre percorriamo Whitehall; mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei Comuni; nei tribunali, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni, e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti? (Woolf 2016: 92-93) 

Il grido – appello? Comando? – di Virginia Woolf ha mosso generazioni di femministe. Cos’è che nella sua chiamata possiede ancora un potere di incitamento per la ribellione femminista? 

Le Tre Ghinee è un testo senza compromessi che denuncia e rifiuta le “fedeltà immaginarie” del potere. Questo grido, quello di pensare ovunque, è stata una risposta alla tentazione di unirsi alle istituzioni proprio nel momento in cui queste cominciavano ad aprirsi alle donne, alla tentazione per le estranee di essere inglobate nella processione degli uomini istruiti, la tentazione, cioè, di entrare completamente “nelle professioni” tra cui l’esercito o la cattedra universitaria. Woolf vedeva le università britanniche, le torri d’avorio del tempo, come luoghi che non solo escludevano le donne, ma che forgiavano gli uomini istruiti che perpetuavano l’esclusione delle donne e conducevano le nazioni negli orrori della guerra. In questo modo Le Tre Ghinee condanna le università non solo per fallire nella produzione di pensiero che possa opporsi a queste dinamiche, ma anche per forgiare un pensiero che più probabilmente le sostiene. 

Ciò solleva molte domande per i nostri tempi attuali – e probabilmente innesca domande diverse per lettori diversi – come ad esempio a quale scopo stiamo generando dei laureati? O in che modo la processione accademica a cui stiamo partecipando è coinvolta nella formazione delle nostre società?

Di nuovo: pensare è un’attività fortemente situata. Nel 1998, per la mia tesi di dottorato iniziai a fare ricerca intorno al pensiero femminista sulla questione della politica della conoscenza, proprio a partire dalla domanda: quale significato il pensare pensare dobbiamo di Woolf potrebbe avere per una femminista di fine anni ‘90 che entra nel mondo accademico? Inoltre mi chiedevo cosa potesse significare per le femministe dei tardi anni ‘70 che iniziavano a sviluppare gli studi femministi e gli studi sulle donne dentro l’università. Alcune domande restano simili, con l’aggiunta di nuovi strati: questa tradizione di pensiero cosa diavolo potrebbe fare per gli studenti e le studentesse che appartengono all’istruzione accademica di massa democratizzata post anni ‘70 – e ora sulla via rapida della privatizzazione? In che modo il pensare può sopravvivere all’interno dei consolidati approcci alla ricerca manageriali e orientati al mercato che sono stati elaborati e implementati a partire dagli anni ‘90? Cosa mai potrebbero avere in comune le università del 2015 con le Torri d’Avorio degli anni ‘30 che disgustavano Woolf?

Queste domande percorrono una curvatura spazio temporale: 1930, 1970, 1990, 2010…  ma una domanda prematura le connette: in che modo il pensiero ribelle che Woolf prefigurava, e il successivo pensiero femminista che è riuscito ad articolare e incoraggiare, può essere possibile nell’università odierna?

Perché il pensare pensare dobbiamo non fa riferimento a un pensiero pacifico, accettabile e adatto. Per Woolf esso rappresenta, tra le altre cose, un tipo di istruzione che permette di “insegnare ai giovani a odiare la guerra”, ma più estesamente potrebbe rappresentare un tipo di pensiero che si oppone all’interrotta venerabile tradizione del capitalismo patriarcale: violenza contro le donne, razzismo, e tutte le fonti di esclusione, estinzione e sfruttamento dei non-umani… Un pensiero che vada contro lo status quo, che sia portatore di cattive notizie – che potrebbe assomigliare alla guastafeste femminista elaborata da Sara Ahmed (2010), che rovina il banchetto festoso delle oppressioni di ogni sorta. Un pensiero che prende le parti dei più vulnerabili, esclusi e silenziose, e che rompa i confini dell’università per pensare con le esperienze di coloro che non ce la fanno a entrare negli spazi di privilegio – come l’ “outsider dal didentro” di Patricia Hill Collins (Collins 1986), le “neplanteras” di Gloria Anzaldua (Anzaldúa 1987), la “testimone modesta” di Donna Haraway (Haraway 1997), e tante altre provenienti da posizionamenti differenti. Ma parlo anche di un pensiero che non si fermi lì e che sia guidato da un desiderio di altri mondi possibili, da un impegno speculativo che sappia andare oltre ciò che è, che presti attenzione a come altri mondi migliori potrebbero già esserci ed essere nutriti – come le “portatrici di speranza” di Hilary Rose (Rose 1983).

Quindi, quando qui parlo di pensare mi riferisco a quel tipo di pensiero che faccia una differenza radicale nell’essere solidale con l’inadatto. Pensare pensare dobbiamo parla della possibilità di un pensiero di rivolta scolpito persino nel cuore del particolare tipo di pensiero remunerato che le università sostengono e, per estensione, di qualsiasi tipo di “pensiero remunerato”.

Ma in che modo possiamo realizzare un pensiero profondo affinché possa resistere ad adattarsi gentilmente, o adattarsi a lato, o affinché non sia felicemente ignorato dalla continua litania degli abomini? E quali possibilità hanno coloro che sono dentro e che conducono progetti di pensiero di rivolta di influenzare coloro che sono fuori? O in termini più convenzionali: quali sono le possibilità di continuare il nostro lavoro in connessione con i movimenti e forme di vivere che costituiscono e sostengono le comunità più ampie dei non adatti?

E tuttavia Woolf non ha pronunciato pensare pensare dobbiamo per coloro che sono dentro, bensì per coloro che sono fuori e che sono attirati dalla fedeltà e dalle sicurezze della condizione di essere dentro. La sua voce era intransigente; se il sistema di istruzione non fosse cambiato, non ci sarebbe stato nessun motivo per unirsi alla processione: 

Neppure una ghinea del denaro guadagnato con il nostro lavoro sarà destinata alla ricostruzione del college sulle stesse basi di prima; alla stessa stregua è escluso che se ne possa spendere una per ricostruirlo su basi nuove. Di conseguenza la nostra ghinea verrà annotata sotto la voce “Stracci. Benzina. Fiammiferi”. E Le verrà spedita accompagnata dal seguente biglietto: “Prenda questa ghinea e la usi per radere al suolo l’intera costruzione. Dia fuoco alle vecchie ipocrisie. Che il bagliore dell’edificio in fiamme faccia fuggire gli usignoli atterriti e invermigli i salici. E le figlie degli uomini colti danzino attorno al grande falò, gettando di continuo bracciate di foglie morte sulle fiamme, mentre le loro madri sporgendosi dalle finestre più alte gridano: “Che bruci! Che bruci! Non sappiamo che farcene di questa istruzione!” (Woolf 2016:60).

A volte mi chiedo cosa potrebbe succedere se qualcuno scrivesse qualcosa di simile oggi – sarebbe magari arrestato per incoraggiare intenzionalmente la violenza come successo ai ragazzi che hanno lanciato appelli su Facebook affinché si desse fuoco alle automobili durante le rivolte di Londra nel 2010, anche se ciò non accadde? 

Le università contemporanee potrebbero scoraggiarci rispetto alla possibilità di cambiamento tanto quanto le torri d’avorio scoraggiavano Woolf al suo tempo. E tuttavia devo dire che pensare a partire dal disadattamento di chi è dentro oggi mi fa sentire diversa rispetto alle relazioni tra il pensiero forestiero e il lavoro in Accademia. Nel 1998 vedevo chiaro quanto la divisione fosse grande e che le università e gli accademici creassero recinti di pensiero profondamente pericolosi per il pensiero stesso e negativi per la costruzione di alleanze politiche, e per il femminismo in modo particolare. Come ho detto prima, ho biasimato le contrapposizioni accademiche per aver creato molti degli ostacoli alle connessioni femministe. Sebbene ciò sia ancora qualcosa che reputo importante, mi sembra anche che le università non siano mondi separati, bensì riflettano le società di cui sono parte. Le università sono come micro modelli di politiche economiche che partecipano alle più ampie reti di potere. Le università sono dentro. Le cosiddette torri d’avorio con cui Woolf si confrontava nella Gran Bretagna degli anni ‘30 del 1900 riflettevano il modo in cui l’istituzionalizzazione del privilegio funzionava all’interno di società permeate da differenziazioni sociali esplicite e sfacciate – classiste, razziste, e sessiste – e da istituzioni esclusive. Questo è il motivo per cui Woolf detestava l’esercito, le professioni, gli accademici in un unico respiro. Le università britanniche di oggi sembrano riflettere società in cui molte di queste divisioni sociali non sono assunte esplicitamente, ma piuttosto rese invisibili sotto il lustro manageriale della democrazia tecnocratica che incarniamo interamente. Il pensiero che divide prospera nelle società che dividono. Il basso livello di lotta, rivolta e insurrezione nell’università in particolari paesi riflette anche lo stato dei movimenti sociali. Mi domando se potremmo imparare e identificare le dinamiche repressive delle politiche di austerità nel pensare di oggi. 

Sconfortante? Eppure ciò che questo significa per le alleanze lungo la divisione università/non università è che le persone che lavorano nelle università potrebbero avere in comune con coloro che sono “fuori” più lotte di quante noi tutte possiamo immaginare. E che pensare pensare dobbiamo con gli altri circa ciò che sta accadendo “dentro”. Ma pensare con gli altri richiede la rottura degli schemi di isolamento.

# Un pensiero solenne - disonora il pulpito

Noi che ora agitiamo futilmente quest’umile penna potremmo parlare dal pulpito. Nessuno oserà contraddirci, allora; saremo le portavoci dello spirito divino… che visione grandiosa, non è vero? (Woolf 2016: 91)

Mi piace lavorare in una università, e in quanto incline al lavoro intellettuale fin da giovane mi sento molto privilegiata ad avere un lavoro che perlomeno include questa attività come specificità del lavoro stesso. Diverse comunità accademiche mi hanno dato così tanto e continuano a farlo, e oggi mi sento fortunata a lavorare in mezzo a colleghe e colleghi fantastici. Paradossalmente, questa sensazione di privilegio è la stessa che alimenta il sentimento di vergogna per il fatto di provare piacere, così come la vergogna di osare lamentarmi.

La possibilità per le donne di “parlare dal pulpito”, come diceva Woolf, è arrivata prima di quanto lei avesse osato immaginare. Ma l’ironia della sua domanda resta: di quali poteri ci dota questo successo? Confesso che spesso (personalmente) sento ancora “il pulpito” all’interno delle sale per le conferenze come un’esperienza vergognosa. Lavorando in un contesto fortemente multietnico, internazionale e multiculturale, mi sento spesso imbarazzata a stare lì, una donna bianca privilegiata che partecipa al commercio all’ingrosso di ciò che spesso sembra un guscio vuoto (titoli di laurea costosi per un mercato del lavoro disfunzionale). La vergogna per essermi unita alla processione e di tenere lezioni a giovani le cui vite condivido così poco all’interno dei sistemi iper monitorati che incoraggiano qualunque cosa tranne che “insegnare a trasgredire” (hooks 1994). 

Noi femministe siamo entusiaste delle donne e delle ragazze che affermano se stesse, donne che sentono di meritare ciò che hanno – invece di pensare che sono arrivate lì per caso o per usurpazione – e certamente, se noi non miriamo a queste posizioni, i ragazzi lo faranno. Ma l’orgoglio come forma di potere nella lotta per accedere al mondo accademico può essere un trappola. Il mondo accademico alimenta egocentrismo e ambizione e un desiderio feroce di riconoscimento, e la necessità di nasconderci le nostre vulnerabilità gli uni alle altre dietro ciò che Susan Leigh Star, di cui tanto sentiamo la mancanza, chiamava “Il Muro della Vergogna Trascendentale” (Star 2007). Questo evoca un’altra forma di vergogna, non tanto quella di stare sul pulpito, ma la vergogna di esporre i propri fallimenti dal pulpito. 

La strega neopagana ed ecofemminista Starhawk ci racconta come funziona il potere; esso può funzionare solo perché si nutre di desideri di riconoscimento. Abbiamo bisogno di non dimenticare che siamo attivisti, accademici, o entrambi, come

I gruppi che rafforzano i sentimenti di superiorità, la separazione dalle tendenze dominanti della vita umana e la rimozione delle fragilità e fallibilità ordinarie rinforzano le difese dei loro membri e inibiscono la propria crescita personale. (Starhawk 1999: 173)

La vergogna può essere feconda, alimentando il senso che condivido con molte colleghe e amici che qualcosa non sta andando nel verso giusto rispetto a dove le università stanno sempre più andando. Essere imbarazzata mi dimostra che qualcosa è ancora vivo e in fermento dentro di me, e che non posso tollerare la messinscena dell’invulnerabilità dal pulpito – che queste sale per conferenze non sono il tipo di luogo che le mie madri e nonne femministe desideravano. Curiosamente, ciò mi ricorda una frase di Gilles Deleuze, la “vergogna di essere un uomo”. A volte io provo vergogna nell’essere una femminista in un sistema di produzione gerarchico ed escludente.

Qui è dove Woolf disse che la Società delle Estranee potrebbe insegnarci a resistere: non solo rifiutare di offrire al potere “occhi abbagliati” e di coltivare “indifferenza”, ma anche resistere alla “vendita” dei nostri cervelli a “fedeltà artificiali”. Questo è qualcosa che trovo necessario pensare oggi, come una questione politica. 

Ora conosco l’esperienza di essere imbarazzata da “occhi abbagliati” indirizzati su di me. Non mi piace quando le persone mi collocano in un mondo differente perché possiedo un titolo di dottorato di ricerca. Questo non è nè un tratto della personalità né una questione psicologica; è un problema politico. Oggi la sfida potrebbe essere non solo quella di rifiutarsi di guardare al potere con  “occhi abbagliati”, ma anche incoraggiarci a vicenda a sfidare lo scambio del nostro lavoro nell’economia degli “occhi abbagliati” che impedisce la solidarietà. Woolf chiedeva che noi rimanessimo nella Società delle Estranee per pensare nella segretezza delle esperienze di tutti i giorni. Ma in che modo affrontiamo questa forma di estraneità integrata?

In molti modi so che ciò che ha fatto sì che in questo lavoro potesse continuare ad esserci gioia sono  gli interstizi di cura che persone impegnate sono riuscite a ritagliare e a mantenere vivi a dispetto dell’istituzione e nonostante l’istituzione: crepe nella cornice di coercizione e pressione da cui il pensare pensare dobbiamo schizza fuori – o che a volte semplicemente produce silenzi scomodi. Molti di questi arrivano dalle voci femministe che non si adattano e che provano a entrare in comunicazione.

Molti di questi spazi sono frammentati lungo molte ubicazioni, in Accademia e oltre. E il lavoro di coinvolgere questi frammenti l’un l’altro, il lavoro di nutrire queste bolle di ossigeno va oltre il lavoro programmato, esso implica favorire le reti di cura che tengono le solidarietà vive. Ma qui arriva un problema dal momento che lo spazio per questo tipo di lavoro continua a restringersi nelle condizioni attuali della produzione accademica. 


# La scienza è infetta - l’oggettività aggiornata

La scienza, a quanto pare, non è asessuata; è un uomo; un padre, affetto da quel morbo. (Woolf 2016: 183)

Oltre all’accesso all’istruzione, tema al centro anche di un’altra opera di Woolf quale Una stanza tutte per sé, Le Tre Ghinee affronta il problema in modo più profondo. La scienza era infetta – malata – quindi per quale motivo provare a entrarci? Woolf ha contestato la finzione che permeava il più ampio ideale di nobiltà della Scienza, e cioè che la conoscenza prodotta nelle università fosse imparziale e oggettiva, e in particolare scherniva l’idea che la “conoscenza disinteressata” prodotta in queste istituzioni fosse una possibilità per la pace – solo la conoscenza disinteressata salverà il mondo dalla rovina. In tal modo Woolf ha anticipato la critica femminista degli anni ‘70 al potere della scienza patriarcale di sostenere sessismo, razzismo, classismo, ed esclusioni di ogni genere. Questa critica va oltre quella dell’oggettività come pratica di ricerca, e considera l’oggettività come un alibi dell’imparzialità – che può risuonare attraverso diversi nomi quali “libertà intellettuale” o libero pensiero  – che serve a sgomberare obiezioni politiche, ma anche passioni, impegni, rabbia, e molti altri sentimenti basati sul genere e sull’etnia. Ora, se le scienziate, studiose e altre femministe degli inizi hanno permesso di articolare un movimento che mette in discussione radicalmente i sistemi costituiti della produzione di conoscenza, si sono anche scontrate con l’opposizione che le ha squalificate fin dal principio: la “scienza neutrale” non può essere costruita a partire da pregiudizi politici. La domanda, dunque, era: quali possibilità ha il ribelle pensare pensare dobbiamo promosso da Woolf di avere successo attraverso questi filtri?

Questa è una storia ben documentata. Nei tardi anni ‘90 le scienziate e studiose femministe hanno aperto la strada e così il pensiero femminista può contare su una larga serie di attrezzi per portare avanti il nostro doppio lavoro, quello di guastafeste nella casa della oggettività-in quanto-imparzialità e quello di portatrici di speranza verso approcci alternativi alla scientificità: le articolazioni di un punto di vista femminista, l’affermazione di una conoscenza situata, le tante connessioni creative tra teoria e pratica, pensare da, per, e con le esperienze marginalizzate (Harding 2004).

Potremmo affermare che le figlie e nipoti di Woolf hanno seguito la sua esortazione può incoraggiante:

il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi. (Woolf 2016: 188)

E questo è ancora tanto importante.

Eppure per la mia esperienza oggi non troverete molti accademici che difendono una tale idea di oggettività come neutralità. Possiamo festeggiare. La critica ha fatto strada in modi diversi. Ma quei modi la maggior parte delle volte non rappresentano un trionfo. 

Oggi la scienza non deve essere neutrale in primo luogo. Al contrario, deve avere un impatto, e rispondere ai bisogni della società e dei mercati – che ci piaccia oppure no, oggi la scienza è tecnoscientifica. Questo non significa che le “procedure oggettive” e l’“etica della ricerca” non debbano essere seguite, se non hanno nulla a che fare con l’oggettività e con l’etica (Boden, Epstein, Latimer 2009). Infatti molti sostengono che queste forme procedurali si siano intensificate nelle università gestite dagli amministratori ed esperti di marketing piuttosto che da scienziati e intellettuali. Quindi rimanere attaccati all’ideale altro della conoscenza disinteressata – quello che ha permesso agli accademici di rivendicare autonomia e libertà intellettuale e anche di utilizzarle per ignorare le (nostre) visioni del mondo provinciali – potrebbe in realtà impedire la carriera e la promozione di una persona.

Buone notizie?

Oggi è pervasiva un’altra versione della neutralità o, si potrebbe dire, un altro modo di neutralizzare il pensare. Un modo che può essere fatale per il pensare pensare dobbiamo dentro le istituzioni. Questo va sotto il nome di metriche. E significa, ad esempio, che la qualità e il valore dei “prodotti” del pensiero viene misurato in numeri di articoli (queste nuove modalità di valutare la conoscenza è stato oggetto di ricerca approfondita da De Angelis & Harvie 2009 per esempio). Quanti articoli hai pubblicato? Com’è classificata la rivista in cui hai pubblicato? Quante volte sei citato?

Misurare il valore della conoscenza attraverso le metriche è l’alibi rinnovato per la neutralità.

Le metriche sono la riconfigurazione manageriale della finzione meritocratica del vecchio regime. Le donne e le altre persone tradizionalmente escluse potrebbero pensare che abbiamo molto da guadagnare da ciò. In fin dei conti, se le metriche sono veramente ciò che conta, se tutto è misurato e giustificato su alcuni fogli di calcolo, nessuna oscura commissione di promozione dovrebbe essere capace di ignorare “oggettivamente” che abbiamo tanti buoni articoli di qualità quanti il collega maschio bianco laggiù. ‘Trasparenza’ è la parola. Quindi, in teoria, potremmo ‘oggettivamente’ contestare le ingiustizie perché dovrebbero essere ‘documentate’ da qualche parte. Ovviamente ci sono molte altre modalità di escludere le donne dalle posizioni professionali, modalità che cominciano molto prima che siano scritte in una lista di pubblicazioni.

Esemplificative di queste dinamiche sono le valutazioni nazionali della ricerca che dettano il passo alle università britanniche. I dipartimenti sono comparati e classificati per gruppi disciplinari tramite il numero delle pubblicazioni di qualità prodotte e altri indicatori di eccellenza (quali i casi “di impatto”, vale a dire, ad esempio, la dimostrazione dell’effetto di un progetto di ricerca sul cambiamento delle politiche). Questi esercizi di valutazione sono molto importanti perché essi definiscono il piazzamento delle università nelle classifiche (a cui guardano anche i futuri studenti) e i fondi assegnati.

E se una non ci sta attenta, la sudditanza delle università a questi esercizi può arrivare a te, profondamente.

Per essere inclusi nelle consegne dipartimentali per queste valutazioni, gli individui devono presentare quattro prodotti di alta ricerca per il periodo valutato (a seconda delle discipline, articoli pubblicati su riviste scientifiche potrebbero contare di più di libri o viceversa) e possono anche fornire “casi di impatto”. Ciò potrebbe non sembrare molto, ma c’è la questione di cosa conta come “prodotto di alta qualità”. Nelle scienze sociali, la nozione di qualità è influenzata dal fattore di impatto delle riviste in cui sono pubblicati gli articoli (anche se nessuno di questi è evidente dal momento che le commissioni di valutazione dovrebbero leggere tutti gli articoli di cui valutano la qualità, piuttosto che guardare solo alla qualità della rivista in cui sono pubblicati, un compito che molti considerano impossibile dal momento che queste hanno migliaia di articoli da leggere in un tempo molto limitato).

Ho dovuto ridere quando a qualcuno di noi è stato detto ultimamente che la selezione per la partecipazione alla prossima valutazione della ricerca punterà a includere solamente coloro che hanno pubblicato quattro articoli in riviste di punta, dette a “4 stelle” (le riviste sono classificate secondo 4, 3, 2, 1 stella). In che modo è possibile per tutte noi pubblicare su riviste a 4 stelle? Chiamatemi pure ingenua, ma potrebbe esistere una tale cosa come una rivista a 4 stelle se tutti pubblicassero in riviste a 4 stelle? L’economia micropolitica accademica presente qui è chiara e tutti ne facciamo esperienza quotidianamente. Per esserci una classe (di accademici) a 4 stelle, c’è bisogno che ci siano altre persone in classe 3, 2 e 1. Molto lavoro deve essere fatto per mantenere la casta superiore, gli accademici ad alta quota, l’Accademico dal Grande Finanziamento, mentre una classe media schiacciata continuerà a pensare e a lavorare e ad accettare pressioni per paura di essere spinta nella classe inferiore, il proletariato accademico, come gli assistenti con incarico di insegnamento (senza contratti di ricerca) che, insieme agli assistenti alla didattica e ai lavoratori con contratti occasionali e posizioni di ricerca precarie, portano avanti il lavoro ingrato. 

In un articolo intitolato “La Storia Capitalista di Bloomsbury” pubblicato sul blog Rage of Maidens, Angela Withers ricorda quanto la filosofia della London School of Economics nel tardo diciottesimo secolo fosse vicina al contemporaneo “concetto di precarietà e gerarchia” nelle università contemporanee:

Dobbiamo abbandonare l’ideale semplice di parità, identità e uniformità tra professori, che riguardi gli incarichi permanenti o lo stipendio, i traguardi o i doveri, gli orari o le vacanze. I professori titolari, da cui principalmente dobbiamo dipendere per la ricerca, dovrebbero avere ovviamente un incarico permanente a vita, stipendi alti e tempo libero abbondante, mentre la massa dei docenti universitari necessaria per una popolazione studentesca così estesa quale è quelle di Londra guadagna solo stipendi modesti, e lavora in tempi e periodo convenienti per coloro per i quali lavorano. (Withers 2011: 2)


Inoltre, a un livello personale, non essere inclusi in queste valutazioni comporta delle conseguenze per l’avanzamento di carriera e, semplicemente, per la stima personale. Alcuni colleghi che non sono stati inclusi nelle ultime consegne sono sottoposti a un esercizio di microgestione che richiede loro di tenere l’amministrazione centrale regolarmente aggiornata circa la propria ricerca e i propri piani di pubblicazioni. Serve una corazza pesante per far sì che tutto questo non abbia influenza sulla propria autostima. Serve solidarietà per ricordarci reciprocamente che non essere adatti al sistema potrebbe essere in realtà una buona cosa. Ci vuole coraggio per mantenersi gioiosi di fronte al controllo austero. 
 
# Perdita di notorietà - opinione schietta

Proteggere la cultura e la libertà intellettuale significa [...]  derisione e castità, perdita di notorietà e povertà. (Woolf 2016: 113).

Ora, ciò prevede delle conseguenze circa una questione che è diversa da, anche se comunque correlata, all’esclusione delle persone inadeguate.

Seguendo Woolf, il punto non è quante di noi ce la faranno a raggiungere le proprie Poltrone e Cattedre, ma che tipo di pensiero può avere successo attraverso l’oggettività aggiornata. Perché le metriche sono così poco neutrali quanto lo era l’oggettività. Le metriche hanno conseguenze chiare circa il pensiero che ce la farà in questo contesto. 

Non fraintendetemi: pubblicare sulle riviste va bene per diversi motivi; credo che il sistema di peer review possa migliorare un po’. Ma è anche certo che il pensiero promosso nelle riviste accademiche venga generalmente ripulito attraverso questo processo – dal momento che bisogna rispondere a una serie di richieste provenienti dal gruppo di revisori e che bisogna stare dietro allo snobbismo che le riviste di livello alto devono mantenere per definizione (una logica potente nonostante le notevoli differenze fatte da comitati editoriali notevolmente impegnati!). 

Questo significa anche che il pensiero radicale e rivoltoso potrebbe spesso essere riservato ai capitoli in libri, riviste meno chiuse, e modi di pubblicare dove c’è meno controllo e dove è possibile vagare col pensiero più liberamente. Ma qui arriva il problema: questi non “contano” realmente per la logica dell’eccellenza nelle valutazioni della ricerca, giusto? Il cerchio si chiude. Dal momento che il tempo per fare ricerca è diminuito, specialmente per coloro che non possono, o preferirebbero non prendere parte al gioco del Grande Finanziamento, e se a questo si aggiungono responsabilità di famiglia e oltre, insieme ad altri impegni, se una deve concentrare la propria energia nel partecipare al trambusto maschilista 4X4 per mantenere la carriera, allora ci sono domande legittime da porre circa  quale tipo di pensiero avremo bisogno di privilegiare allo scopo di pubblicare ricerche che “contano”. 

Nelle parole di Woolf, conformarsi a “scrivere per ordine di un altro” è una specie di “adulterio del cervello” e, continua Woolf: “adulterare significa anche, secondo il dizionario, ‘falsificare con l’aggiunta di ingredienti più vili’. Il denaro non è l’unico ingrediente più vile’. La pubblicità e la ricerca della notorietà sono pure agenti adulteratori” (Woolf 2016: 130). Se la cultura deve essere disinteressata, allora non dovrebbe essere mischiata con pubblicità e notorietà. Si tratta di un pensiero interessante su cui riflettere non solo per le commissioni di promozione che contano gli articoli, ma anche per i manager di marketing dell’università. 

E c’è più di questo. Il processo non è necessariamente così sottile come quello descritto sopra in cui tutti noi vi partecipiamo – in quanto revisori tra pari (peer reviewer). Poichè le metriche non hanno necessariamente sostituito il regime sostenuto dall’alibi della neutralità. Molto più seriamente, anche per il pensiero critico e ribelle, questa tecnocrazia delle metriche aiuta a mascherare la persistenza del buon vecchio regime di potere attraverso uno strato di fumata meritocratica. Anche se ciò potrebbe essere nominato in altri modi, come ad esempio marketing. 

La notorietà conta. Di recente alcuni accademici e sindacati universitari hanno risposto scioccati alla seguente dichiarazione fatta da un anziano associato sul blog di uno studio legale che ha clienti nel campo dell’istruzione universitaria:

Le università e i college potrebbero… imbattersi in impiegati altamente performanti che, sebbene non accademicamente brillanti, hanno il potenziale per danneggiare la reputazione del proprio datore di lavoro. Questo potrebbe accadere attraverso l’affermazioni di opinioni schiette o insubordinazione generale. Indipendentemente da quanto potenzialmente preziosi questi lavoratori possano essere per le proprie istituzioni, la realtà è che, nell’accettare sistematicamente comportamenti inaccettabili,  le università potrebbero creare precedenti pericolosi per gli altri lavoratori che una condotta del genere permetterà. Da un punto di vista del rischio, è molto più difficile giustificare un licenziamento per cause morali, o altre sanzioni, se una simile condotta non è stata punita in precedenza. (citato in Gill 2014)


Questa non è solo una fantasia da incubo. Casi recenti di licenziamento di accademiche critiche in Gran Bretagna, che hanno contestato la cultura manageriale dell’università risuona con i casi di accademiche che hanno espresso le proprie opinioni in modo trasparente accaduti in Belgio: il licenziamento di Barbara Van Dyck per il suo coinvolgimento in un’azione pubblica (a noi vicina) contro gli organismi geneticamente modificati, il diniego dell’incarico di ruolo alla nostra amica e collega Sarah Bracke dopo un lungo e non trasparente processo di ‘valutazione’ (molti lo hanno chiamato persecuzione) che sembrava essere stato inventato sul momento e adattato alle esigenze dell’università. Il diniego dell’incarico di ruolo è stato alla fine giustificato con un “non essere idonea al profilo” che l’istituzione cercava, in particolare per la sua attenzione alle questioni di genere e sulla sessualità. Pensare pensare noi dobbiamo circa i modi in cui la teoria critica e le azioni rischiano di fallire sempre di più per “essere idonei al profilo” tipico dello spirito della nuova università manageriale. 

Riconosco certamente che questi casi sono diversi nei singoli particolari. E potrebbe essere facile pensarli come casi eccezionali, e trovare conforto individuale nell’idea che queste potrebbero essere state persone non disposte a scendere a compromessi, cosa che la maggior parte di noi farebbe. Eppure per me ciò sarebbe non solo il contrario delle solidarietà collettive che abbiamo bisogno di costruire, ma significa anche mettere la nostra testa nella sabbia: cosa succede se questi sono solo la punta visibile dell’iceberg? Cosa succede se questi funzionano come casi esemplari che favoriscono una cultura di autocensura in tutti noi?

Questo è particolarmente importante per una delle domande in cui Sophia ci ha coinvolto ancora di una volta – le possibilità di un’accademia militante oggi. Voglio parlare dei casi in cui le convinzioni politiche si mescolano a un “comportamento” accademico appropriato, incluse le strategie di pubblicazione, non solo per contribuire alla decostruzione delle carriere e dei mezzi di sostentamento, ma anche al restringimento di spazi nell’Accademia per accademici inadeguati non solo per diversità di formazione, ma anche per modi inadeguati di pensare

E il pensare pensare dobbiamo di Woolf non riguarda anche qualcosa come l’ “opinione schietta o insubordinazione generale”?
Altrove ho scritto sul “pensare con cura” come se possa potenziare un pensare che ci mette in connessione, ma anche come un pensiero che può ritagliarci: quando diciamo “no” in nome di qualcosa di cui abbiamo davvero cura. È possibile avere troppa cura ed essere adeguate come accademiche?

In ogni caso, le storie di persone che sono state schiacciate dal sistema per essere interni/esterni schietti risuona in maniera scomoda con ciò che Woolf disse a proposito della Società delle Estranee che per proteggere effettivamente la cultura e la libertà intellettuale significherebbe in realtà derisione e castità, perdita di notorietà e povertà. 

Pensare pensare dobbiamo a come i collettivi femministi e le organizzazioni come Sophia possano supportare coloro che pagano il prezzo di questi meccanismi e si oppongono non solo personalmente, ma anche pubblicamente, a queste aggressioni. 

# Non c’è tempo per pensare (e neppure per avere cura)

Ma, obietterà Lei, Gentile Signora, Lei non ha tempo di pensare; ha le Sue battaglie da combattere, i Suoi affitti da pagare, le Sue vendite di beneficenza da organizzare. Ma questa non è una giustificazione sufficiente, Gentile Signora. (Woolf 2016: 92)

Mentre scrivo questo testo ho dovuto chiedere a me stessa: cosa, nella mia ricerca e nei scritti di oggi, potrebbe pormi nel pericolo di cadere nella perdita di notorietà e in povertà? Probabilmente nulla. E questo è il motivo per cui una posizione del genere dovrebbe essere una piattaforma di solidarietà con coloro che effettivamente rischiano questa perdita.

Ora, tornando alle metriche, è anche possibile che è ciò che non si fa a mettere a rischio una carriera – per esempio prendersi il tempo per scrivere un testo che non “conta” invece di mettere tutta la propria energia nel miraggio delle prossime 4 stelle. 

É un tema ricorrente tra gli accademici oggi: ho così poco tempo. Ma qual è la “scusa” per coloro che lavorano oggi dentro l’Accademia, qual è l’ostacolo al pensare pensare dobbiamo per quelli che hanno accesso alle aule di studio e, a volte, anche a uffici personali?

Oh, la lista è lunga: come descritto sopra, ci sono pubblicazioni da consegnare, da revisionare, da riconsegnare e riconsegnare ancorare. Classifiche a cui conformarsi. Progetti di finanziamento da scrivere – anche quando sappiamo che ci sono poche possibilità di ottenerlo. Commissioni in cui presenziare – da notare che non dico “a cui partecipare” (una mia collega scherza sul fatto che il lavoro accademico è stato ridefinito come un presenziare a una riunione senza fine). Relazioni da scrivere e altre risposte e spiegazioni senza fine alle richieste del management. E poi c’è la gestione delle relazioni con gli studenti trasformati in consumatori. Scrivere riscontri meticolosi sulle attività dei corsi e sugli esami che non saranno esaminati a fondo dagli studenti stessi, ma rispondere a un’ossessione del “controllo di qualità” che richiede una standardizzazione delle pratiche – di insegnamento e di valutazione. 
È inquietante il modo in cui le nostre relazioni con gli studenti sono diventate regolate. E, così come per la ricerca, è il tempo per coltivare relazioni di cura con gli studenti che è costantemente ridotto. La stretta è anche creata da una situazione in cui, affamate da una carenza di fondi pubblici, le università si trovano in una competizione frenetica nel reclutare studenti, prima che abbiano assunto sufficiente personale. Per esempio, la situazione è tale per cui alcuni di noi devono supervisionare la tesi di un/a laureando/a  in un massimo di 4 appuntamenti di 20 minuti all’anno, e poi impiegare un tempo superiore per registrare il risultato di ciascun appuntamento in un registro – per gestire il rischio di un reclamo dello/a studente/ssa circa una cattiva supervisione – e che hanno un tempo fisso stabilito per leggere il 40% della tesi finale (non pensare di leggere di più anche se puoi, perchè gli altri studenti potrebbero lamentarsi di quanto scorretto sia il fatto che altri hanno avuto “di più”). 

Questo è solo un esempio della costante intensificazione del lavoro… questa non è solo “una scusa”.

Se vogliamo evitare che l’intero nostro tempo di vita sia assorbito dal lavoro, potremmo tagliare il tempo per la ricerca, ma spesso è il tempo per coltivare una relazione più decente con gli studenti a essere ridotta: una relazione che potrebbe permettere spazio o addirittura potrebbe incoraggiare solidarietà con le loro situazioni – ad esempio indebitamento a causa di rette elevate prima che inizino a guadagnare uno stipendio –  e la loro solidarietà con le nostre. Un’altra logica di divisione. Da qui, le lotte che ricordo dalle mie scuole superiori e primi anni di università negli anni ‘80 e ‘90 quando studenti, insegnanti e accademici avrebbero protestato insieme sembrano appartenere a un passato implausibile.

Ora, tornando alla questione delle solidarietà oltre l’università, sembra che queste dinamiche siano lungi dall’essere esclusive nell’Accademia: la svolta generale verso il managerialismo è pervasivo in tutti i settori e spesso questo significa che le persone impiegano più tempo a compilare moduli e documenti orientati alla gestione del rischio o alla soddisfazione del cliente che a risolvere reali problemi o portare avanti un lavoro reale. Sto pensando a D. che lavora come assistente sociale e il cui lavoro consiste essenzialmente in visite domestiche a giovani criminali allo scopo di facilitare il loro reinserimento. Lei mi dice che, di fronte a un piano di lavoro enorme, la sua manager le ha spiegato che nei giorni in cui non riesce a fare tutte le visite deve comunque compilare i documenti perché è più importante avere i moduli completati che avere effettuato la visita. Sto pensando alle ostetriche che hanno accompagnato la nascita di entrambi i miei figli e che hanno speso più tempo a scrivere a mano pagine e pagine, registrando ogni dettaglio su ciò che stava succedendo – gestendo il rischio di una possibile lamentela da parte mia – piuttosto che parlare con me, rassicurarmi, incoraggiarmi, o tenere la mia mano. Sto pensando alle fantastiche lavoratrici dell’infanzia nell’asilo dei miei bambini, le quali, per raggiungere il livello “Buono” nelle ispezioni nazionali, sono tenute ad aumentare il tempo che impiegano per “registrare” lo “sviluppo” di mio figlio di due anni… Scartoffie prima della cura. 

Ciò che rivelano queste pratiche dispendiose dal punto di vista del tempo è l’aumento del lavoro intensivo di “lavoro fasullo”, come direbbe mia figlia di cinque anni. Gestire le condizioni di lavoro riduce il tempo non solo per il lavoro, ma per i lavori non rendicontabili che rendono il lavoro tollerabile. 

Pensare pensare dobbiamo: cosa significa pensare in queste condizioni? Ma non solo pensare – mettere in relazione, avere cura, creare mondi insieme.

# Dondolare la culla

Come Lei sa per esperienza personale e come dimostrano i fatti, le figlie degli uomini colti hanno sempre pensato i loro pensiero così alla buona; non a tavolino, nel proprio studio, nella solitudine tranquilla di un chiostro d’università. Hanno pensato mentre rimestavano la minestra, mentre dondolavano la culla. (Woolf 2016: 92)

Il pensiero non sarà ucciso, ovviamente. Perché esso esiste sempre negli interstizi. Questo suonava come essenziale per me quindici anni fa. Ho anche affermato forte e chiaro alle generazioni di femministe più anziane che “non c’era un’età per organizzare gruppi di autocoscienza” (Puig de la Bellacasa 2001), e dunque non dovevano incolpare le generazioni più giovani per la depoliticizzazione del femminismo accademico (forse sono state troppo gentili, in seguito, a informarmi che forse non esiste “età”, ma che ci possono essere periodi nella vita in cui sopravvivere alla giornata di lavoro potrebbe sembrare un compito impossibile mentre cerchiamo di prenderci cura dei figli, dei genitori anziani, dei corpi malati, e di altre relazioni… quindi, per favore, non parlate di organizzare una riunione serale – o questo sapere era qualcosa da mantenere dietro il Muro della Vergogna Trascendentale?).

Le persistenti opposizioni privato/pubblico, personale/politico respingono ancora quel tipo di pensiero che si fa mentre si “dondola la culla” – ma questa esperienza di dondolare la culla è anche spesso respinto dal pensiero collettivo che potrebbe aiutarci a sottrarci proprio al rifiuto di tale pensiero. Il pensiero che metterebbe in questione i poteri che abbiamo guadagnato dal separare ulteriormente noi stesse dai mondi della cura (e non parlo solo di cura fuori dal lavoro). Un tipo di pensiero che riaccenderebbe il pensare pensare dobbiamo di Woolf!

Ho realizzato che negli anni ‘90, quando militavo nell’attivismo femminista, ho raramente pensato al perché avevamo così poche madri nei nostri gruppi, per non parlare di altre responsabilità di cura. Oggi la questione di come pensare al “nuovo maternalismo” – la parola rivelatrice che Natalie Loveless ha ritagliato per questa importante ri-attuazione (Loveless 2012) –  sembra molto più fondamentale. La verità è che non ricordo di aver dedicato un pensiero serio non tanto alle lotte di amiche che avevano figli – l’ho fatto – ma nessuno al fatto che le bambine e i bambini notoriamente non erano mai intorno a noi, e a come questa separazione, insieme ad altre, potrebbe influenzare ovviamente le madri e i figli, ma anche il tipo di di pensiero e attivismo che stavamo portando avanti. 

Ciò contrasta bruscamente con il lavoro di attiviste femministe che ho incontrato attraverso il collettivo femminista Piano C – un gruppo della sinistra autonoma in Gran Bretagna che, tra le altre cose, sta riportando la questione della “riproduzione sociale” al cuore dell’attivismo (si veda: https://www.weareplanc.org/?fbclid=IwAR07azIcVcHmPKA3gUvHc7_dHiksxjBbbZ51XhiJsZV77jE1aqRKKgIb0F0). Mi ha davvero colpito un gruppo di giovani donne che organizzavano la cura dei bambini – inclusi i miei bambini – durante un’assemblea di Piano C a cui ho partecipato, perché loro non pensavano che i bambini e altre responsabilità di cura fossero affari solo di chi li aveva.

Questo è importante oggi, anche per coloro che potrebbero non avere una scusa per non pensare in maniera rivoltosa, come pagare un affitto per se stessi o forse peggio, per la casa in cui vivono i loro figli e i loro genitori. Questo influenza noi che stiamo vendendo lavoro alle università non per diventare più autonomi dalla “società” attraverso il nostro pensiero libero, ma perché noi non siamo libere – in modi simili a ciò che qualcuno ha chiamato “capitalismo incorporato” (Lilley & Papadopoulos 2014; Papadopoulos,Stephenson, e Tsianos 2008). Potremmo avere più paura di perdere il lavoro a causa delle responsabilità di cura che ad amarlo come femministe, e ovviamente più isolate siamo nella sfera privata e famiglie mononucleari, più pesanti queste responsabilità possono sembrare. Nonostante così tanto lavoro fatto dal femminismo, la sfera privata/privata rimane indiscussa, e la cura e la riproduzione sociale considerati come un “problema” individuale.

Quindi ottemperare alle metriche richiede una intensificazione del lavoro, e quando si aggiunge la “riproduzione sociale” alla miscela sembra esserci davvero poco tempo. Questo è il mantra che ci sentiamo ripetere per tutto il tempo.

Ma in qualche modo, paradossalmente, tornando alla pratica accademica, mentre è la conoscenza che viene dalla pratica militante – ancora! – che pone la questione in primo piano, rifocalizzarsi sulla riproduzione sociale rende anche il pensiero accademico e l'attivismo opposti particolarmente dannosi. Perché intrattiene la fantasia che le università siano in qualche modo mondi separati, diversi dal quotidiano della gente comune.
Come ho detto prima, le università sono microcosmi delle politiche economiche, di cosa e come un particolare contesto valorizza ciò che valorizza. La persistente divisione tra vita pubblica e vita privata relega la cura al di fuori delle attività di valore, sia esse intellettuali sia militanti.

Come ha detto Woolf, non ci sono scuse, perché le donne si sono sempre dedicate alle attività di pensiero mentre stavano facendo qualcos’altro… Ma oggi io potrei dover scegliere di ignorare “qualcos’altro”, ignorare quell’email, assentarmi con la mente mentre siedo in commissioni o compilo inutili moduli. Perché cosa succede se io non voglio pensare mentre sto rimestando la minestra, e se vedessi dondolare la culla come un’attività altamente utile, un momento sacro per stare con un bambino? Cosa succede se sono stanca di sentire il lavoro di manutenzione del quotidiano degradato rispetto all'attività del pensiero?

Vedo il riemergere di questa questione trasversale come presagio di speranza. La cura non è un'attività innocente, neutrale o apolitica; è una nozione contestata carica di significati situati e scopi. Attingo dalle eredità femministe un significato di cura come un problema (Precarias a la Deriva, 2006). Per me la cura parla di un'attività più ampia di quella di dondolare una culla, prendersi cura di un genitore o di un compagno, umano o non: per me la cura parla anche di scrivere ciò che ci interessa davvero anche se probabilmente non sarà numerabile, passare il tempo ad ascoltare davvero uno studente oltre il tempo assegnato, connettere il nostro pensiero con le lotte locali, essere schiette e insurrezionali in solidarietà con coloro che sono oppressi… tutte attività che hanno meno probabilità di essere valutate, non tanto dai colleghi o dalle comunità intellettuali, ma dalle classifiche predominanti di valore e privilegio.

Poiché lo spazio e il tempo per le cure sono ridotti tra professioni e settori, l'impegno per la cura rende le persone vulnerabili, ma può anche dare la forza di dire no… di rifiutare la seduzione degli occhi sfavillanti e sfidare le pressioni del produzionismo accademico e altre manifestazioni del capitalismo incarnato ... di, ispirate al movimento della decrescita, decrescere l'economia incarnata dell’università come azienda… di trovare il coraggio di diventare non eccellenti come proposto dagli autori belgi della Carta della Ineccellenza! Distogliere gli occhi dalla fedeltà artificiale porta il conforto e la gioia di relazionalità alternative.

Eppure per questo c'è un prezzo che non paghiamo equamente tra posizioni diverse, e spero che possiamo incoraggiarci a vicenda, e proteggerci anche, quando necessario

# Continuare a sognare – Presagi di cura

“A che serve stare a pensare a come potrebbe essere diverso un college”, sembrava dire, “se deve essere un posto dove si insegna a trovare un lavoro?”. “Lei continui pure a sognare” [...] “Noi dobbiamo fare i conti con la realtà”. (Woolf 2016: 59)

Per favore non citatemi dicendo che il mondo accademico del Regno Unito è peggiore oggi rispetto a quando escludeva spudoratamente le donne. Ma c'è un sacco di sconforto in giro. Così tanto è cambiato, eppure così poco. Affrontare le realtà è ciò che ci viene detto che dobbiamo fare. Come resistere alle nostre speranze ridotte a un “continuare a sognare”? Come evitare di trasmettere questo cinismo agli studenti e alle future ricercatrici?

Molte di noi sono appassionate di femminismi basati sul desiderio di solidarietà, fortemente influenzati dall'amore tanto quanto dalla rabbia, e dallo sforzo speculativo di pensare a come le cose potrebbero essere diverse... questo desiderio era anche la base  delle epistemologie femministe radicali. Credo che questo desiderio di "nuovi metodi", come dice Woolf, rimanga un desiderio radicale, che risuona ancora più forte dopo l'avvertimento di Audre Lorde che "gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone".

I metodi includono pensare a quali meccanismi di solidarietà e schemi di resistenza possono essere sviluppati in questi contesti in evoluzione. Pensare pensare dobbiamo e continuare a far sentire la nostra voce collettivamente e come femministe su dove la mercantilizzazione dell'università – o "Edufabbrica", come l’hanno chiamata alcuni attivisti europei – ci sta portando. Pensare pensare dobbiamo se e come noi femministe possiamo ancora essere schiette sul tipo di istruzione che stiamo aiutando a riprodurre ... mentre estendiamo la nostra lista di articoli femministi su riviste di alto livello.

I presagi di speranza immaginati da Hilary Rose potrebbero facilmente essere definiti presagi di cura. Questi sembrano ancora più necessari oggi. La pervasiva compressione del tempo e l'organizzazione manageriale nelle professioni che coinvolgono ciò che tradizionalmente etichettiamo come cura non è casuale. L’idea di aprire spazi per la cura come un terreno insurrezionale di alleanze è significativo in molti modi, perché è attraverso una gamma di professioni in cui solo la capacità di prendersi cura, ma anche la capacità di mettere in atto una politica di cura femminista ribelle, viene schiacciata.

Ho speranza qui quando, ispirata da discussioni del femminismo materialista sul lavoro di cura e su un'etica della cura, discuto con altre l'articolazione di una politica della conoscenza alimentata dalla cura. All'inizio ho pensato che questo avrebbe parlato principalmente ad un pubblico femminista. Ma vedo colleghi e ricercatori che non sono particolarmente femministi né "attivisti" connettersi a un ripensamento generale di ciò che cura significa oggi nella loro vita e nel lavoro. Sono fiduciosa quando vedo una politica femminista di cura parlare a favore di un desiderio della ricerca di essere coinvolta nel pensiero del presente su come le cose potrebbero essere diverse per il nostro lavoro per essere solidali con lavori invisibili ed esperienze di esclusione. Le epistemologie femministe radicali sono ancora molto rilevanti.

L'emanazione della cura come una lotta politica nel campo della produzione di conoscenza non diminuisce la necessità di prestare attenzione al terreno materiale della cura come un progetto femminista, cioè, nelle lotte sulle condizioni di vita delle donne e altre persone marginalizzate. La questione rimane non solo come pensare, ma come creare e sostenere reti di cura interdipendente quando si tenta di vivere attraverso queste esperienze. Spazi come Sophia potrebbero essere di vitale importanza per promuovere la continua rievocazione di significati da dare alla segreta Società delle Estranee di Woolf, riflettere sulle nostre vulnerabilità alle fedeltà artificiali, e nutrire e collegare i punti di forza reciproci dentro e oltre il mondo accademico.

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