Questo articolo è uscito sul periodico "Si può fare" uscito a dicembre 2021, dedicato all'Innovazione sociale.
Qui sono disponibili tutti i numeri della rivista.
Sono le 9 del mattino.
Sto uscendo di casa senza chiudere a chiave, come si faceva una volta: nel complesso abitativo dove vivo, oltre al mio spazio privato, ci sono cucina, sale, lavanderia e un terrazzo in condivisione con tre amici. Siamo anche parte di una rete di circa 150 persone che autogestisce diversi servizi. In collaborazione con alcune cooperative e coi servizi pubblici diffusi, siamo riusciti a dotarci di una mensa, un servizio di assistenza per persone anziane, un asilo e a rotazione ci occupiamo del verde del nostro distretto, dove coltiviamo anche frutta e verdura. Insomma un ambiente niente male.
Dicevo, esco e prendo la bicicletta. In 10 minuti sono a lavoro, in una struttura dove in venti condividiamo lo stesso spazio. È una struttura pubblica rigenerata, lo chiamiamo Creative Lab e dentro c’è una cooperativa che fa progetti sociali, un laboratorio di produzione e riparazione tessile, una sala dove si fanno corsi di formazione e aggiornamento, un’officina educativa sul digitale dove riparano anche componenti elettroniche. Disseminati nel nostro spazio ci sono anche oggetti museali e storici, attorno ai quali lavora una squadra di persone che si occupano di storia, urbanistica, architettura, antropologia, arte e design (ne facciamo parte anche io e un mio collega esperto in intelligenza artificiale), e che sperimentano con chi abita in città e turisti curiosi progetti di rigenerazione urbana.
State respirando con me il benessere di questo idillio?
Bene, ho una notizia cattiva, una buona e una buonissima.
La cattiva notizia è che purtroppo questa non è la normalità per tante persone. E fin qui niente di nuovo.
La buona notizia è che nel mondo ci sono infinite pratiche che già vanno in questa direzione e fanno anche molto di più.
La buonissima notizia è che, un po’ per necessità un po’ per intelligenza, si stanno sbriciolando i confini tra chi lavora, chi fa le leggi, chi si occupa di teoria, chi fa attivismo, chi produce bellezza, chi fa pianificazione urbana. Quello della co-costruzione di politiche e di pratiche è un presupposto fondamentale affinché l’idillio si realizzi, affinché si riducano le disuguaglianze, si producano azioni e comportamenti sostenibili e rispettosi del sistema in cui viviamo.
Ottobre 2021, FeltrinelliCamp, Milano
Una discussione corale sul futuro delle città e dei territori è proprio quello che è avvenuto l’8 e il 9 ottobre, presso Fondazione Feltrinelli. Una due giorni dedicata alle Broken cities, le città rotte, da riparare nel presente e in vista di un futuro che si prospetta pieno di complessità.
Sono intervenute politiche, accademiche, attivisti, giornalisti, urbaniste, architetti, designer, e in una serie di interventi in plenaria e in sottogruppi abbiamo discusso di cosa significhi oggi “diritto alla città”, come affrontare le diseguaglianze crescenti, come rendere i territori luoghi in cui esprimere le proprie potenzialità, come rendere effettiva ed efficace la governance partecipativa, come garantire inclusività e democrazia nella transizione socio-ecologica che stiamo vivendo (1).
In conclusione, ogni sottogruppo ha prodotto un documento che presto sarà pubblicato sul sito web di Fondazione Feltrinelli, e per quanto mi riguarda ancora alcune frasi cruciali mi rimbombano in testa:
“Quanto le attività delle nostre organizzazioni sono trasformative? Quanto sono trasformativi i nostri progetti?” (Laura Saija, Università di Memphis).
“Quanto agiamo in ottica sistemica? È il momento di smettere con le buone prassi e agire sull’ordinario” (Carla Tedesco, Università IUAV di Venezia).
A sentire queste suggestioni, mi si sono accesi i neuroni legati a un pensiero letto di recente sulla valutazione di impatto interpretata come una mitologia degli ultimi anni, “che ha prodotto più lavoro consulenziale che cambiamenti organizzativi” (Gianfranco Marocchi su Appunti per la progettazione sociale, ed. Pacini, 2021).
Il tema del sottogruppo a cui mi avevano assegnato era “Participation, digital innovation and co-design of territories”, e più mi confrontavo con questə urbaniste, attivisti, architette, curatrici, antropologi, più avevo la sensazione che una serie di traiettorie si stessero incrociando in modo incredibilmente generativo: big data, arte e intelligenza artificiale al servizio delle comunità (2), piani di sviluppo urbano creati da pubblico, privato e abitanti (3), il dibattito su povertà, ingiustizia, proprietà privata e le sue drammatiche conseguenze (4).
Ne sono uscito stordito, esaltato, impressionato dalla complessità che un territorio porta con sé, e allo stesso tempo lucidamente convinto che ognuno di noi abbia delle competenze che, se espresse in modo sostenibile, collettivo e con bellezza (5), possono imprimere una piccola spinta affinché il futuro prenda la piega migliore possibile.
Pieghe future e co-design di territori e processi
In che città desideriamo abitare? Con quali servizi e come li vogliamo godere? Come inserire le grandi aziende nel processo decisionale comunitario, in modo da non schiacciare gli altri soggetti col loro peso economico? E ancora prima, quali valori di fondo vogliamo che indirizzino le strategie locali, nazionali e globali?
All’ombra di queste domande capitali, mi chiedo anche che ruolo svolga chi fa il mio mestiere (6), cioè facilitatori e facilitatrici di processi organizzativi, gente che pratica il leggendario co-design e lo User Experience Design per creare servizi orientati al benessere della persona e delle comunità.
Concedetemi una piccola deviazione, strumentale sia per prendere aria dopo domande così enormi, sia per arrivare a un punto importante.
Siete stati in Salento di recente? L’interesse mediatico è sceso negli ultimi anni, ma il batterio della Xylella continua a fare enormi danni. Per centinaia di chilometri si incontrano solo muretti a secco e migliaia e migliaia di ulivi completamente secchi, tragicamente morti, attorcigliati su loro stessi in una posa disperata che ricorda la scultura del Laocoonte e i suoi figli. Lande piatte desertificate, spettrali. L’ulivo è stato per secoli il petrolio della Puglia, il simbolo iconico di un territorio che ha stabilito la sua economia su campi infiniti di una sola monocoltura.
Ecco il punto: monocoltura.
È bastato un batterio per far collassare un intero sistema basato su una sola risorsa, su una sola tipologia di pensiero, su una sola specie. Basare un sistema su una monocoltura significa destinarlo alla fragilità.
Cosa significa “monocoltura” per il nostro sistema umano? Può significare persone che credono a una sola verità dogmatica e la impongono sulle altre. Può significare imprese che lavorano solo in ottica di profitto e sfruttamento del lavoro. Può significare un uso della tecnologia dedicato esclusivamente a estrarre dati in favore di pochissimi soggetti che ne fanno enormi profitti. Può significare città che impostano il proprio futuro solo su alloggi/turismo/mobilità/economie vampiresche che generano aumento delle disuguaglianze e della povertà. Può significare un Terzo settore lasciato da solo a “coltivare” i servizi socio-sanitari. Può significare una cultura intesa solo come spettacolo e movida, e non anche come elemento cardine per la rigenerazione dei territori. Può significare una Pubblica Amministrazione che emette solo bandi al massimo ribasso per poi ottenere servizi scadenti e persone sempre più sfiduciate.
Per scardinare i rischi e le prevedibili conseguenze delle “prospettive monocolturali”, possono esserci di supporto l’approccio e la filosofia inclusiva del co-design.
Sta già avvenendo (ricordate, erano la notizia buona e quella buonissima) e dovremo continuare con sempre più energia a spingere il presente in questa direzione. Aiutare soggetti diversi a immaginare un futuro insieme, esprimendo al meglio le proprie potenzialità, con un'ottica di sistema. Sostenere chi si occupa di progettazione sociale nel creare e poi raccontare quello che fa e le conseguenze positive dei suoi progetti. Fare dell’arte e della contaminazione (7) la chiave di volta di ogni tipo di processo, pubblico o aziendale che sia. Favorire l’assunzione e la diffusione delle responsabilità collettive sui beni comuni, che siano l’acqua, gli alberi, un palazzo o un quartiere. Immaginare riti collettivi di liberazione e non più di depressione individuale.
Manifesto di Ancona centripeta
Nel nostro piccolo ad Ancona, con trenta di portatori di interesse più o meno formali della città, nell'ultimo anno abbiamo realizzato quattro incontri che avevano come obiettivo in primis far confrontare le persone su dati e percezioni in merito a tre temi (abitazione, lavoro e turismo) e poi sulla base di queste elaborare in modo collettivo un Manifesto per una Ancona attraente, in cui le persone amassero vivere.
Ne sono venuti fuori cinque punti programmatici, sotto forma di obiettivi visionari:
- Ecosistema e poli centripeti
- Governance
- Benessere e attrattività
- Apertura
- Mobilità
Questo Manifesto è ora open source, cioè copiabile e utilizzabile da chiunque e da qualsiasi organizzazione. Già diverse iniziative hanno preso spunto dal Manifesto per organizzare eventi, approfondire tematiche su riviste, spostare il focus delle proprie attività ponendo attenzione a uno o più dei cinque obiettivi.
Sono stati mesi intensi, ma il futuro lo sarà ancora di più.
Buon co-design a tuttə!
NOTE
1. Gli stimoli sono stati innumerevoli, dalle teorie alle pratiche, da Melbourne al Sahel e per chi volesse immergersi nelle riflessioni di relatori e relatrici, potete farlo dal questo link: https://fondazionefeltrinelli.it/brokencities/. A breve Fondazione Feltrinelli pubblicherà il report finale che raccoglie le suggestioni dei sottogruppi di lavoro.
2. Come ad esempio il progetto di Sineglossa IAQOS, che ho portato come caso studio, http://iaqos.sineglossa.it, o il lavoro che sta svolgendo Nadina Galle sull’internet della natura, www.nadinagalle.com.
3. Vedi il caso Superblocks di Barcellona o il suo piano sulle case popolari, www.barcelona.de/en/barcelona-superblocks.html, o anche 11th Street Bridge Park di Washington, https://bbardc.org/the-park/.
4. Saskia Sassen, Richard Sennett e Ananya Roy ne hanno parlato diffusamente, qui il suo intervento al TedxBerkeley https://www.youtube.com/watch?v=pKASroLDF0M, o gli incredibili numeri del social housing a Singapore, dove l’80% della popolazione vive in abitazioni gestite dallo Stato e concesse per 99 anni, https://www.globalurban.org/GUDMag07Vol3Iss1/Yuen.htm e https://en.wikipedia.org/wiki/Public_housing_in_Singapore.
5. Non a caso beautiful, sustainable, together sono le tre parole chiave dell’iniziativa europea New European Bauhaus. Tre principi trasversali che secondo l’Europa dovranno porsi alla base di ogni politica, a tutti i livelli, creando uno spazio di incontro tra arte, cultura, inclusione sociale, scienze e tecnologia. Questo è il sito web istituzionale: https://europa.eu/new-european-bauhaus/index_en.
6. Per chi volesse curiosare nella sterminata galassia dello User Experience Design, Service Design e della facilitazione, sostenibili e inclusivi, suggerisco qualche spunto che rappresenta giusto la punta dell’iceberg: https://www.communitydesign.org/, https://www.interaction-design.org/literature/topics/ux-design, https://www.interaction-design.org/literature/topics/service-design, https://www.complexityinstitute.it/, https://designjustice.org/.
7. Per contaminazione intendiamo lo scambio che può avvenire tra discipline, metodologie, approcci e strumenti, una volta dato un obiettivo comune, che può essere relativo alla progettazione e realizzazione di politiche territoriali, innovazione aziendale, evoluzione organizzativa.
8. Per approfondire, il Manifesto di Ancona centripeta è leggibile qui: https://iaqos.sineglossa.it/ancona-centripeta