Hashima è una delle 505 isole disabitate al largo di Nagasaky, a circa un'ora di navigazione, ed ha ospitato uno dei più prolifici siti minerari giapponesi.
Nel 1974 l'isola, a seguito della chiusura della miniera, è stata abbandonata ed è diventata un racconto a cielo aperto del decadimento non solo dell'età industriale, ma dell'idea stessa che la vita si possa svolgere, ad un prezzo oltretutto carissimo, solo intorno al lavoro.
Dalla fine del '800, la presenza di un giacimento di carbone richiamò migliaia di persone sull'isola, tanto che la Mistubishi la acquistò ed ampliò la miniera.
L'isola prese corpo e la vita comincio a scorrere. Furono realizzati nuovi condomini, scuole, cinema, negozi. L'incremento demografico diede cosi vita ad un vero e proprio piano urbanistico che vide una fase di ampliamento che ebbe luogo fino al 1931 tanto che l'intera isola venne edificata. Un'isola - città - miniera- vita.
Si edificava cosi, intorno al lavoro della miniera, tutto lo strato sociale e gerarchico, di sfruttamento ma anche di "valori" comuni, che facevano del lavoro minerario l'unica ragione di vita. Su uno scoglio, un'isola, si registrò una delle più alte densità di popolazione al mondo, con ben 1.391 abitanti per ettaro per la sola zona residenziale e 835 abitanti per ettaro in tutta l'isola, fino al picco del più alto tasso di popolazione raggiunto alla fine degli anni '50 del novecento con oltre cinquemila abitanti.
Durante il secondo conflitto mondiale l'isola divenne addirittura un campo di lavoro per prigionieri cinesi e coreani che vennero duramente costretti all'attività di miniera. Tanto per ricordare agli uomini liberi che il lavoro, in sintesi, può essere una dura condanna e l'isola di Hashima (il luogo di lavoro) una prigione a cielo aperto.
Intorno, o meglio, sopra questa isola, si andarono a concetrare tutte le speranze dei lavoratori minerari, nacquero relazioni umane e sociali, i dirigenti minerari facevano i loro profitti e sembrava, in fondo, che la vita stessa fosse quella: lavoro, miniera, casa, isola, gerarchie, sopravvivenza per molti, profitto per pochi. Un impossibile realtà per i suoi abitanti, volontariamente obbligati dalla sopravvivenza, come se non fosse possibile altrimenti. Corpi, uomini, donne, bambini, sentimenti, sogni, speranze, storie si sono confuse con il carbone e con l'idea che il lavoro fosse tutto e tutto fosse possibile pur di lavorare. Cosi tanto importante che vivere accatastati uno sull'altro, su un isola ad un'ora dalla terraferma, fosse la cosa più normale del mondo. Che quella realtà fosse l'unica realtà possibile.
Alla fine degli anni sessanta del novecento, la richiesta di carbone cessò. La nuova fonte energetica dominante il pianeta, definitivamente, divenne il petrolio e la Mitsubishi Corporation chiuse lo stabilimento minerario. In pochissimi mesi l'isola fu abbandonata. La scuola, le case, il cinema, i negozi furono lasciati a se stessi. In fretta e furia "tutta la vita" che l'isola aveva ospitato, tutte le ragioni e le giustificazioni che legavano di quel vivere, svanirono nel nulla. Tutta la realtà che sembrava essere l'unica possibile, come fosse l'unica verità, divenne magicamente irrilevante. Tutto l'impossibile che nessuno si aspettava divenne possibile. Il luogo dove bambini avevano passato la loro infanzia, tra enormi condomini e scuola, tra minatori e negozi, tra albe e tramonti sul mare, tra cinema e strette viuzze, divenne un ricordo. Oltretutto un ricordo pericoloso perchè per moltissimi anni andare sull'isola disabitata, sull'isola della fine del lavoro, delle certezze e della vita costruita intorno al lavoro, fu vietato dal governo giapponese. Pena l'arresto e la galera.
Hashima, l'isola vissuta intorno al lavoro, che non c'è più.
Queste brevi riflessioni a voce alta, per invitarvi a vedere il film documentario che ho linkato tra queste righe. Mettetevi comodi, vedetevi il film, il lavoro può attendere....