Milano 2019, il passaggio da metropoli industriale a finanziaria è pressoché completato, i processi di gentrification e speculazione immobiliare che colpirono il centro tra la fine del ‘900 e l’inizio del duemila permeano ormai tutto il tessuto urbano. E insieme alle trasformazioni del paesaggio urbano cambia di pari passo la tipologia richiesta dal mercato ai suoi abitanti. La progressiva deregolamentazione delle prestazioni lavorative ha permesso sia alle startup che alle multinazionali di espandersi grazie alla diminuzione del costo del lavoro a scapito soprattutto, ma non solo, degli studenti universitari e dei giovani lavoratori; ciò nonostante si sia alzato, nel tempo, il livello di formazione e le qualifiche richieste.
In questo contesto, decine di migliaia di giovani si trovano ad affrontare un intricato percorso che, provando a conciliare lo studio universitario e la necessità di (soprav)vivere con il naturale bisogno di contaminazione culturale, li spinge alla costante ricerca di luoghi dove poter fruire o/e sviluppare liberamente forme d’arte.
Possiamo facilmente osservare che l’arte -nella sua accezione più ampia- a Milano, seppur freneticamente moltiplicata e iper-diffusa, non si rende accessibile a tutti; sia per via del suo costo (che la caratterizza in quanto merce), sia per via del suo carattere non più divulgativo, ma strettamente autoreferenziale, che spesso impedisce all’opera culturale di rivolgersi a un pubblico diverso da quello degli stessi operatori che ne permettono creazione e sostentamento. Assistiamo, inoltre, a un fenomeno tipicamente milanese in cui la dimensione creativa, sensibile ed emozionale, partecipa alla definizione stessa del valore delle merci, nelle strategie di marketing e nell’innovazione produttiva del capitale[1].
L.U.Me, Laboratorio Universitario Metropolitano, nasce proprio dalla necessità di dare una risposta a questi bisogni e dalla volontà comune di dar vita ad una comunità di/e per studenti e studentesse universitari e giovani lavoratori e lavoratrici, oltre che un luogo dove poter sviluppare le più svariate forme d’arte al riparo dalle logiche che il mercato impone. Mossi da queste riflessioni, una quindicina di giovani studenti e studentesse universitari nell’Aprile 2015 occuparono uno storico stabile abbandonato in pieno centro a Milano, a due passi dalla sede principale dell’Università degli Studi di Milano. Da allora andò a svilupparsi una comunità di student*, musicist*, fotograf*, attor* e giovani lavorator* che iniziò a mettere in scena eventi e laboratori culturali ed artistici; dimostrando come l’arte possa svilupparsi anche in luoghi non convenzionali e senza il bisogno di diventare merce.
Lo sgombero dello stabile di Vicolo Santa Caterina, il 26 Luglio 2017, non fermò la collettività di LUMe. In un primo momento, infatti, la critica alla gestione degli spazi comunali dedicati all’arte e lasciati in stato di totale abbandono, portò all’occupazione dell’ex cinema Orchidea, a due passi dalla stazione ferroviaria di Cadorna, in seguito fu trovata una nuova casa nei giardini dei “Bastioni di Porta Venezia”. L’ex “magazzino del verde pubblico”, un sottoscala ad anfiteatro progettato dal Piermarini nell’ambito dell’abbattimento e riqualifica delle mura spagnole del 1783-86, dal novembre 2017 ha trovato un’inaspettata seconda (e differente) vita, dopo i decenni d’abbandono, ed è ora un punto riferimento culturale sia per il quartiere che per i giovani.
In questi anni il collettivo ha portato avanti un modello di autogoverno orizzontale, fondato sulla centralità decisionale dell’assemblea di gestione e di indirizzo politico. Inoltre, i tavoli tematici e le assemblee di autoformazione aperte alla città permettono una più ampia accessibilità e partecipazione al progetto.
Questa esperienza ha portato una grande ventata d’aria fresca sia per la cultura milanese che per i giovani che vivono la città rimanendo, però, in una condizione di costante precarietà: sia spaziale che temporale. Spaziale in quanto l’amministrazione comunale non riconosce l’importanza di questa esperienza, meritevole, tra le altre cose, di aver ridato spolvero al jazz, e ignora la comunità che anima l’ex Magazzino del Verde Pubblico; temporale perché tutti e tutte gli/le attivisti/e devono necessariamente far coincidere le attività di LUMe con i propri impegni quotidiani, vista l’impossibilità di mantenere in essere forme di auto-reddito. Le alte spese di gestione dello spazio nella sua quotidianità, per mantenerlo agibile e per garantire un cachet dignitoso ai vari artisti che lo attraversano, obbliga la collettività di LUMe ad escludere prospettive di lungo periodo e non potersi confrontare, economicamente, con ipotesi reddituali più o meno esplicite. Inoltre, le forme comuni di auto-reddito praticate da organizzazioni autogestite spesso trovano difficile mettere a valore tutto il lavoro cognitivo e d’organizzazione che vi sta dietro.
Dunque, osserviamo con interesse lo sviluppo di cripto-monete “del comune”, grazie la c.d. blockchain technology, che siano “protette” da speculazioni finanziarie e che possano anche riconoscere tutte le attività degli-lle abitanti di una comunità. E. Braga definisce il commoncoin “come una moneta sociale e locale: più si partecipa alla governance, al mantenimento e alla gestione dell’organizzazione (nel quale il valore viene prodotto) più si è in grado di essere parte del valore comune prodotto[2]”. La moneta del comune è in uso (ed è stata elaborata) nel centro indipendente per l’arte, la cultura e la ricerca M^C^O. Questa cripto-valuta rappresenta l’unico esperimento in Italia di sviluppo di una valuta autonoma che mette a valore l’attività quotidiana delle attiviste e degli attivisti di questa comunità.
Di pari passo con la ricerca di spazi di contaminazione culturale e nuovi strumenti per creare reddito all’interno delle comunità, la nostra generazione deve pretendere con forza un reddito universale. La possibilità di percepire un reddito di esistenza, slegato da qualsiasi condizione lavorativo-sociale, oltre a mettere la persona nelle condizioni di poter rifiutare contratti di lavoro senza tutele o con basse remunerazioni, aumenterebbe il tempo a nostra disposizione per sviluppare la creatività e dedicarsi a tutte le attività non remunerative. Inoltre, potrebbe riconoscere (almeno in parte) l’enorme quantità di valore prodotto nell’utilizzo delle tecnologie che non viene riconosciuto a chi utilizza PC, smartphone o tablet.
La necessità di un mondo oltre al lavoro connessa al bisogno di creatività e di relazioni significative mi hanno venire in mente questa storia, che ho amato:
https://commonfare.net/it/stories/un-amore-di-lavoro